di Edmondo Mostacci

1 – La vittoria di Donald Trump nelle presidenziali di martedì ha stupito, senza essere tuttavia sorprendente. Come le analisi del giorno dopo ammettono candidamente, essa non giunge come un fulmine a ciel sereno, ma è la conseguenza di un malessere sociale che ha radici profonde e che pervade da diversi anni le società politiche occidentali.

Volendo tracciare una prima e del tutto perfettibile analisi del voto, esso è, in buona misura, la conseguenza dell’innestarsi, in un processo storico più generale, delle conseguenze – economiche, sociali e politiche – della crisi economica emersa con il fallimento di Lehman Brothers e delle strategie poste in essere per contrastarla.

In estrema sintesi, in primo luogo il multiforme processo di modernizzazione di cui la globalizzazione costituisce ad un tempo forza trainante e tassello fondamentale ha scosso le fondamenta dei sistemi economici e sociali dei Paesi della western legal tradition. E se il mutamento ha posto le premesse per l’affermarsi di alcuni settori e di determinate professionalità, esso non ha mancato di lasciare sul campo un ampio novero di soggetti sconfitti, il cui ruolo sociale è andato tramontando, anche più in fretta rispetto alle pur declinanti condizioni di benessere.

D’altro canto, la crisi ha accelerato questo processo, enfatizzandone le conseguenze negative e mostrando in pieno il volto oscuro della globalizzazione. Infatti, se nel quindicennio successivo alla fine della guerra fredda, la mondializzazione dei rapporti economici ha soprattutto significato, per le classi medie occidentali, accesso a una quantità crescente di prodotti, ad un costo che andava gradatamente riducendosi, la crisi ha arrestato questo processo e ha altresì enfatizzato le conseguenze negative, per l’insieme dei produttori, dell’accrescersi della competizione internazionale, a partire dalla riduzione della quota di reddito destinata alla remunerazione del fattore lavoro, a beneficio del necessario recupero di competitività del sistema economico nazionale e dei suoi prodotti, dal progressivo incremento – nel contesto statunitense avvenuto in via di fatto – della mobilità dello stesso fattore della produzione. Inoltre, negli Stati Uniti, la crisi finanziaria ha arrestato quel privatized keynesianism che, per diversi anni, aveva costituito la risposta lato sensu politica alla perdita di potere d’acquisto per numerosi gruppi sociali.

Al di là delle specifiche conseguenze della crisi, è poi da sottolineare come la strategia di contrasto posta in essere dal governo federale, incentrata primariamente su salvataggi bancari – in questo seguita dalla grande parte dei Paesi europei – e di alcune grandi realtà produttive (come General Motors e Chrysler) e su una politica monetaria particolarmente attenta alle esigenze del sistema finanziario, abbia raggiunto, di là dall’Atlantico, buoni risultati a livello aggregato ma non abbia mitigato in modo sostanziale le conseguenze della crisi per i ceti medi e bassi. In particolare, il settore manifatturiero ha riassorbito solo in un tempo lungo il picco di disoccupazione – con evidenti conseguenze in termini patrimoniali per chi abbia dovuto affrontare un importante periodo di disoccupazione, senza godere delle tutele tipiche dei sistemi di welfare europei –, mentre la dinamica dei redditi ha impoverito una parte molto significativa dei soggetti ivi occupati. Sotto questo profilo, l’operato della federazione è tutto sommato deficitario e non è andato molto oltre alla clausola buy american del Recovery and Reinvestment Act del 2009 e all’innalzamento del salario minimo per i dipendenti della Federazione che, nelle intenzioni del Presidente, avrebbe dovuto aprire la strada alla revisione, da operarsi con legge, di quello relativo ai lavoratori del settore privato.

L’insieme di queste circostanze ha prodotto due dinamiche diverse ma collegate e destinate a produrre una risultante di particolare rilievo. Da un lato, una parte molto rilevante della popolazione statunitense ha risentito in misura particolarmente penetrante della crisi e del più generale processo di modernizzazione cui si è fatto riferimento, e si ritrova oggi a percepire una condizione di incertezza economica e di marginalità politica e sociale. Dall’altro, essa prova un sentimento di diffidenza e di distanza verso una classe politica federale che, negli anni, è sembrata – e probabilmente in buona misura è stata – più attenta a soddisfare le istanze degli interessi maggiormente strutturati che a fornire risposte alle esigenze della cittadinanza globalmente intesa. Non è un caso infatti che, nel discorso della vittoria, Donald Trump abbia tenuto a dichiarare: «the forgotten men and women of our country will be forgotten no longer».

Nel quadro che si è tentato, pur per sommi capi, di delineare, il candidato repubblicano, pur con le numerosissime contraddizioni del suo passato non cristallino, ha finito per sembrare credibile nel suo messaggio fondamentale, articolato sulla sua genetica distanza da una classe politica postdemocratica e sulla sua attitudine a incarnare l’idea dell’individuo americano che lotta, cade e si rialza per perseguire la propria personale versione del sogno americano.

Al contrario, Hillary Clinton ha in primo luogo pagato la sua lunga e qualificante appartenenza al mondo di Washington e i rapporti con il mondo finanziario. Sotto questo profilo, la sensazione è che sia stata danneggiata assai più dalla pubblicazione delle carte relative alla grazia concessa, allo scadere del suo secondo mandato, da Bill Clinton al finanziere Marc Rich e alle cospicue donazioni da questi compiute in favore della Bill and Hillary & Chelsea Clinton Foundation, che non dal più noto e-mail gate. In definitiva, la candidata democratica ha finito per divenire il ricettacolo della diffidenza che da diversi anni anima rilevante parte delle comunità  politiche occidentali e che il travagliato, recente periodo ha certamente acuito.

D’altra parte, anche da un punto di vista programmatico, la piattaforma democratica ha mostrato il fianco a questo stesso genere di perplessità. Pur essendo più articolata e definita – e soprattutto meglio strutturata – di quella repubblicana, non ha saputo segnare una soluzione di continuità con l’asse portante dell’indirizzo in ambito politico ed economico che, al di là dell’alternanza di uomini alla casa bianca e delle pur differenti declinazioni, ha caratterizzato ultimi decenni. È pur vero che Trump non ha offerto una reale visione alternativa, ma nonostante la sua contraddittorietà ha mostrato una maggiore sensibilità verso issues particolarmente sentite all’interno del corpo sociale.

La ricostruzione che si è del tutto sommariamente condotta trova una conferma dall’analisi di alcuni dati elettorali. In particolare, appare assai significativo mettere in luce in quali Stati si sia verificato un cambio di indirizzo rispetto alle precedenti elezioni presidenziali. Si tratta di sei Stati e precisamente: Florida (HC, 47,8%; DT, 49,1%; BO, 50,0%; MR, 49,1%); Iowa (HC, 42,2%; DT, 51,8%; BO, 52,1%; MR, 46,5%); Michigan (HC, 47,3%; DT, 47,6%; BO, 54,3%; MR, 44,8%); Ohio (HC, 43,5%; DT, 52,1%; BO, 50,1%; MR, 48,2%); Pennsylvania (HC, 47,6%; DT, 48,8%; BO, 52%; MR, 46,8%); e Wisconsin (HC, 46,9%; DT, 47,9%; BO, 52,8%; MR, 46,1%). Se si eccettua la ballerina Florida, dove la forbice tra i due candidati rimane abbastanza stretta in entrambe le elezioni, sono tutti Stati della cosiddetta rust belt, un tempo cuore pulsante dell’America produttiva e oggi marginalizzati dalle delocalizzazioni, minacciati dalla concorrenza internazionale e superati dalla terziarizzazione dell’economia statunitense. Si noti, tra l’altro, come in tutti questi Stati la differenza tra le due elezioni presidenziali sia notevole e vada dall’oltre 6% della Pennsylvania e dal 7,7% del Wisconsin, al 9,8% del Michigan, al 10,5% dell’Ohio, fino all’eclatante 15,2% del piccolo Iowa. Un’analisi maggiormente localizzata, come quella approntata da Nate Cohn sul New York Times (Why Trump Won: Working-Class Whites), mostra anche con maggiore evidenza la perdita di consenso del partito democratico in quelle aree a forte presenza industriale che un tempo costituivano una delle sue roccaforti.

Il disegno trova conferma anche dalle prime analisi in merito al rapporto tra condizioni reddituali e scelte di voto. Nel segmento dei redditi bassi (inferiori ai 30.000 u.s.d. annui) e medio-bassi (tra 30.000 e 50.000 u.s.d.) i democratici hanno perso una fetta importante dei suffragi che tradizionalmente avevano: paragonando le ultime quattro elezioni presidenziali, infatti emerge un trend negativo particolarmente rilevante nel primo segmento (63%, 73%, 63%, contro il 53% del 2016, con una perdita di 10 punti percentuali rispetto al 2012) e tutt’altro che trascurabile nel secondo (57%, 60%, 57%, contro il 51% del 2016, con una perdita di 6 punti percentuali rispetto al 2012). Tale calo è solo parzialmente compensato dalla moderata crescita (pari al 3%) nel segmento che comprende i redditi tra 100.000 e 200.000 u.s.d. e da quella, ancora inferiore (circa lo 1%), nei redditi superiori a tale ultima soglia. Nulla è stata invece la variazione tra i redditi intermedi (tra 50.000 e 100.000 u.s.d.). Solo parzialmente speculare la variazione dei repubblicani, ove la diminuzione dei voti tra i redditi medi e alti è compensata dall’aumento del 6% in quelli raccolti nella fascia inferiore a 30.000 u.s.d.

L’insieme di questi dati sembra testimoniare della grande difficoltà di tracciare una soddisfacente linea di equilibrio tra le esigenze della modernizzazione, a cui si è fatto riferimento, e la necessità di favorire l’inclusione nella comunità politica e di fornire risposte adeguate alle istanze che provengono da quegli strati sociali maggiormente esposti alle conseguenze negative di quello che si è voluto chiamare il volto oscuro della globalizzazione.

 

2. – Al di là dell’analisi del risultato in termini più marcatamente politologici, si possono avanzare alcune considerazioni di carattere più propriamente giuridico costituzionale.

In primo luogo, il risultato del 2016 sembra smentire alcune perplessità emerse, nei mesi scorsi, a proposito delle elezioni primarie. Di fronte alla vittoria di Trump e al buon risultato di Sanders, molti osservatori avevano criticato lo strumento di selezione delle candidature tipico degli Stati Uniti. La logica di questo genere di discorso era sostanzialmente riassumibile in due assunti fondamentali. Per un verso, le consultazioni tra simpatizzanti hanno un effetto radicalizzante: le primarie mobilitano soprattutto gli elettori più sensibili e polarizzati. Per l’altro, la vittoria alle elezioni generali richiede candidature in grado di intercettare i voti degli indecisi e di “parlare” al centro dello schieramento politico. La vittoria di Trump sembra smentire in modo netto questo assunto: in un sistema in cui la partecipazione elettorale è alquanto modesta, il processo elettorale richiede in primo luogo la capacità di mobilitare una frazione minoritaria ma consistente di elettori, sufficiente ad imporsi sul proprio avversario, cosa che può essere fatta in modi diversi assai diversi tra loro. Le primarie invece confermano la propria attitudine a costituire un buon banco di prova per i futuri candidati, mentre un soggetto che riesce ad imporsi da outsider al proprio partito – come fece, in parte, anche Obama nel 2016 – ha ottime chances di fare una buona performance anche alle elezioni generali.

In secondo luogo, la vittoria di un candidato non soltanto antisistema, ma anche pieno di contraddizioni e di punti deboli come Donald Trump mostra che gli ordinamenti democratici hanno bisogno di un alto livello di inclusione sociale effettiva e percepita. La marginalizzazione di parte significativa dell’elettorato, specie in periodi segnati da tensioni sociali e difficoltà economiche, produce un voto che sarebbe improprio definire “di protesta”. Si tratta invece di un voto che marca distanza, diffidenza e alterità rispetto a un sistema rappresentativo sentito come eccessivamente distante.

Dal punto di vista del rapporto di rappresentanza, ciò si traduce nella necessità di vitalizzare la relazione discorsiva che lega le istituzioni di governo con la comunità politica; altrimenti, lasciata a se stessa e fatta valere solo a fine mandato, l’accountability rischia di non essere più in grado di riportare a un livello minimo di coerenza il sistema complessivo.

Anzi, in assenza di un compiuto e continuativo rapporto rappresentativo, il momento elettorale tende a scivolare in una deriva tribunizia che aggrava sia la patologia di cui soffre la rappresentanza politica, sia le stesse cause economiche e sociali della disaffezione da cui deriva, in ultima analisi, la stessa patologia appena citata.