di Giuliana G. Carboni

La sentenza  R (Miller) v Secretary of State for Exiting the European Union [2016] EWHC 2768 (Admin), del 3 novembre 2016, afferma chiaramente che il Governo britannico non ha il potere di notificare il recesso del Regno Unito dall’Unione europea senza autorizzazione del Parlamento. Secondo i tre giudici della High Court of Justice, il recesso comporterebbe una limitazione dei diritti dei cittadini britannici che non può essere decisa dall’Esecutivo nell’esercizio dei Prerogative Powers.

Per decidere la legal question la Corte compie un’attenta analisi del rapporto tra Statute e Preogative, e degli effetti del European Communities Act 1972 nell’ordinamento del Regno Unito. La political question, che ha generato il ricorso e sulla quale la High Court si è espressa incidentalmente, rimane sullo sfondo della decisione. Il tema dei rapporti con l’Unione europea, e la decisione sulla permanenza nella UE, che ha diviso l’elettorato, i partiti, i territori e persino le istituzioni  del Regno Unito rimane aperta e attende ancora una soluzione.

Il referendum del 23 giugno, al quale i partiti hanno delegato il compito della scelta europea, per l’incapacità di trovare una posizione unitaria al loro interno, ha accentuato le divisioni senza offrire alcuna indicazione su come dare risposta ai molti problemi posti dalla vittoria del Leave. La natura binaria e divisive del referendum non consente la composizione dei molteplici e complessi interessi coinvolti nel rapporto tra UE e Regno Unito. Il valore vincolante del referendum è, infatti, di natura politica. La natura costituzionale dei referendum europei, sostenuta da una parte della dottrina britannica, conferisce una particolare valenza politica al voto, ma non ne accresce in alcun modo la forza giuridica. Come si legge nel par. 22 della sentenza The judges know nothing about any will of the people except in so far as that will is expressed by an Act of Parliament.

Se la Suprema Corte confermerà la decisione della High Court, l’attivazione dell’art. 50 TUE è una questione che dovrà essere affrontata e decisa dalla maggioranza e dall’opposizione. In tal caso si può ipotizzare che i partiti concordino sulla necessità di autorizzare il Governo ad effettuare la notifica nei tempi previsti, salvo poi prevedere il successivo coinvolgimento del Parlamento nella fase delle trattative. L’alternativa, che però diluirebbe molto i tempi della notifica, consisterebbe nel definire prima la cornice d’azione del Governo.

Il coinvolgimento del Parlamento nel processo decisionale sarebbe quanto mai opportuno per una serie di ragioni. In primo luogo perché, a prescindere da quella che sarà la decisione della Suprema Corte, consentirebbe di affrontare il nodo dei territori, che come è noto sono divisi sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’UE. Il pluralismo territoriale che caratterizza il Regno Unito e che sta contribuendo a trasformare il sistema politico può trovare nel Parlamento il luogo di composizione dei diversi interessi, che né il referendum né le assemblee locali sono in grado di mediare.

In secondo luogo, la parlamentarizzazione della Brexit offrirebbe l’opportunità ai partiti di riappropriarsi delle issues che hanno accompagnato la campagna referendaria: immigrazione, sovranità, competività. I timori e le incertezze manifestate dai principali partiti nel condurre la politica europea (cosa che non può essere detta dell’UKIP) ha prodotto una crisi del sistema politico che ha determinato a sua volta una frattura tra Parlamento e Governo. La sfida al sistema politico britannico è quella posta a tutti i sistemi parlamentari europei: offrire una risposta ai nuovi problemi che affliggono la società senza rinunciare ai principi fondamentali della democrazie. La diversa posizione del Parlamento (in particolare della House of Lords, Select Committee on the Constitution, The invoking of art. 50 TUE) e dell’Esecutivo guidato dalla May in merito ai rapporti con la UE e a alla definizione dei Constitutional Requirements di cui all’art. 50 TUE è emersa in modo inequivocabile.

La divisione politica e istituzionale và al cuore della forma di governo britannica. Non è un mistero che il c.d. modello Westminster abbia perso da tempo i suoi caratteri tradizionali, a causa soprattutto della fine del bipartitismo, ma anche di altri fattori: devolution, referendum, Unione europea. Il Governo e la sua maggioranza hanno perso la capacità di guidare il Parlamento, nel quale evidentemente la rappresentanza non è in grado di esprimere l’unità politica in una società sempre più frammentata. Da qui la crisi della soluzione monista offerta dal regime parlamentare e il ricorso a un istituto come il referendum per supplire al compito decisionale.

Per cercare di ripristinare gli equilibri costituzionali il Regno Unito deve ricorrere paradossalmente a un principio che molti ritengono superato, quale è la sovranità parlamentare. Appare evidente, tuttavia, che da solo il principio della sovranità parlamentare non può risolvere il dilemma europeo. Per uscire dalla Brexit sarebbe di grande aiuto la possibilità di fare ricorso ad un altro fondamentale caposaldo del sistema britannico, il principio del mandato. Secondo questo principio il Governo e la sua maggioranza avrebbero pieno diritto di attuare il programma sul qualel’elettorato ha espresso il consenso, ma dovrebbero tornare ad interpellare gli elettori nel corso della legislatura se insorgono nuove questioni particolarmente controverse. Come è stato fatto notare da più parti, il voto del 23 giugno non contiene un mandato specifico, non indica quale sia la strada da seguire per ridefinire i rapporti tra Regno Unito ed Unione europea. Le due forme della sovranità, popolare e parlamentare, possono cessare di contrapporsi se viene riattivata attraverso il voto la relazione tra rappresentanti e rappresentati.

L’ipotesi che sia necessario indire nuove elezioni per sciogliere questo nodo fondamentale appare oggi meno velleitaria. Certo, la previsione del Fixed Term Act, che ha stravolto il meccanismo dello scioglimento anticipato e trasformato radicalmente la forma di governo a guida del Premier, non favorisce questa soluzione. Le alternative appaiono però ugualmente complicate. Fatto salvo un eventuale ribaltamento deciso dalla Suprema Corte, è alquanto improbabile che i parlamentari, quando e se saranno chiamati ad esprimersi, votino per una soluzione che smentisca la volontà popolare. Ma è altrettanto improbabile che si conformino pienamente alle scelte del Governo. Ogni altra ipotesi necessita dunque di tempo, e  di mediazione. Il Governo in carica sembra però poco propenso all’attesa e ha già espresso l’intenzione di procedere alla notifica nei tempi promessi (31 marzo 2017), e alla presentazione del Great Repeal Act, con il quale intende effettuare la Patriation del diritto e dei diritti britannici.

I giudici della High Court si sono limitati ad analizzare i profili interni della sovranità per risolvere la questione delle attribuzioni del Parlamento e del Governo. Il profilo esterno, dei rapporti con la UE non è stato esaminato nella decisione. Il Governo May, deciso a difendere la sovranità esterna in Europa, è costretto a subire gli effetti della sovranità interna, a dimostrazione della vitalità dei principi del costituzionalismo britannico ma anche del momento particolarmente delicato che sta vivendo il c.d. modello Westminster. La tenuta del sistema di fronte ai cambiamenti politici e istituzionali viene messa a dura prova, ed è forse questa la ragione ultima per la quale i giudici hanno scelto di ancorare la loro decisione alla sovranità parlamentare, principio fondamentale del costituzionalismo britannico, al quale hanno affidato il compito di garantire la tutela dei diritti e l’equilibrio tra poteri.