di Mauro Volpi

La Turchia è un Paese che per la sua collocazione geopolitica ha rivestito una posizione peculiare quale ponte di collegamento fra l’Europa e l’Asia e più in generale fra Occidente e Oriente. Decisiva sotto questo punto di vista è stata l’azione di modernizzazione, laica e repubblicana, operata dal fondatore della Repubblica Mustafà Kemal, denominato Atatürk o “Padre dei turchi”, che ne è stato Presidente dalla sua creazione nel 1923 fino al 1938. Nel secondo dopoguerra la Turchia è entrata a far parte della NATO ed è uno dei quarantasette Stati che aderiscono al Consiglio d’Europa. Nel 2005 sono stati avviati i negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea, che implicavano tra l’altro l’adozione di riforme interne tali da allineare il Paese agli standard democratici europei.

La vicenda turca ci interpella in quanto studiosi di diritto pubblico comparato a doppio titolo. Innanzitutto perché ha rappresentato storicamente il tentativo di dare un assetto democratico ad un Paese importante prendendo come modelli di riferimento gli ordinamenti costituzionali europei più evoluti. Certo, tale tentativo nel secondo dopoguerra non è stato privo di contraddizioni e di pesanti battute di arresto: basti pensare al ruolo di tutela sovracostituzionale svolto dai militari, che è sfociato in tre colpi di Stato (nel 1960, 1971 e 1980) e alla questione del mancato riconoscimento dell’autonomia e dei diritti della nazionalità curda, che costituisce circa un quarto della popolazione dell’intero Paese ed è stata e tuttora è sottoposta ad un intenso intervento repressivo di tipo militare. La seconda ragione che richiede il nostro impegno deriva dalla costatazione che la Turchia sta vivendo una involuzione che si inserisce nel quadro della trasformazione in senso antidemocratico delle Costituzioni o della loro violazione aperta con leggi che limitano i diritti fondamentali e mettono in discussione l’indipendenza degli organi di garanzia in direzione del netto predominio del potere esecutivo e del suo “capo” nei confronti degli altri poteri, come sta avvenendo in vari Paesi europei (come l’Ungheria e la Polonia).

Un passo decisivo della involuzione autoritaria, avviata già da qualche anno con leggi che hanno limitato la libertà di stampa e l’indipendenza della magistratura, è rappresentato dall’esito del referendum del 16 aprile che, secondo i dati ufficiosi diffusi dal Consiglio elettorale supremo, avrebbe sancito l’approvazione della “riforma” costituzionale deliberata a gennaio dal Parlamento che ha modificato diciotto articoli della Costituzione, senza rispettare il procedimento di revisione, in quanto, in violazione dell’art. 175, c. 1, Cost., non è stato imposto l’obbligo del ricorso al voto segreto. Il Si avrebbe vinto con il 51,3% dei voti favorevoli e il 48, 7% dei voti contrari. Uso il condizionale perché seri dubbi sulla regolarità della votazione sono stati formulati dagli osservatori internazionali dell’OSCE, sia per il mancato rispetto della parità fra le parti nel corso della campagna a causa dell’occupazione dei media da parte dei sostenitori della riforma, che ha impedito una adeguata informazione sui suoi contenuti, sia per la regolarizzazione, operata dal Consiglio elettorale su richiesta del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), di circa due milioni e mezzo di schede elettorali non fornite del timbro previsto dal codice elettorale al fine di garantirne l’autenticazione e di evitare brogli.

Più in generale va detto che il referendum si è svolto in condizioni non democratiche, contrassegnate dal prolungamento, deliberato all’indomani del referendum dal Consiglio dei ministri per la quarta volta di seguito, dello stato di emergenza instaurato dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016. In questo quadro il Governo ha potuto approvare una serie di decreti-legge, che la Corte costituzionale ha ritenuto non direttamente impugnabili, che hanno previsto forti limitazioni ai diritti sanciti dalla Costituzione e la sospensione di gran parte di quelli riconosciuti nella CEDU. Sulla base di essi sono stati licenziati circa 150000 dipendenti pubblici, fra i quali quasi la metà dei giudici e dei pubblici ministeri e molti docenti universitari, parte dei quali avevano aderito ad un appello sottoscritto nel gennaio 2016 che criticava l’odiosa repressione in atto nel Sud-Est del Paese a predominanza curda e chiedeva l’avvio di un processo di pace. Sono stati poi chiusi giornali, radio e televisioni, scuole e associazioni ritenute “non allineate” con il Governo. Infine si è proceduto all’arresto di migliaia di persone, accusate di complicità con il terrorismo, fra le quali due giudici costituzionali, più di 80 giornalisti e molti esponenti, compresi vari parlamentari e i due co-presidenti, della seconda forza di opposizione del Paese, il Partito democratico del popolo (HDP). In questo contesto è impossibile sostenere che il referendum si sia svolto nel rispetto delle condizioni minimali di libertà e di democraticità. Inoltre il voto del 16 aprile riflette la profonda spaccatura esistente nel Paese, della quale è una evidente conferma la vittoria del No in tutte le grandi città e il predominio del Si nelle zone rurali. Una situazione questa che avrebbe dovuto spingere ad evitare un’ampia revisione costituzionale contro la quale si era schierata la metà del Paese.

Ma quella approvata è una semplice revisione o è in realtà una nuova Costituzione che sostituisce definitivamente quella del 1982, già sottoposta a varie successive modifiche? Se si pone la questione in termini formali, i diciotto articoli modificati riguardano non i principi e i diritti fondamentali, ma la parte organizzativa e in particolare la forma di governo, trasformata da parlamentare in presidenziale (anche se per alcuni con l’introduzione nel 2007 della elezione popolare del Presidente della Repubblica si sarebbe configurata come “semipresidenziale”). Ma la logica e l’esperienza insegnano che occorre guardare alla sostanza delle “ampie” revisioni costituzionali relative alla organizzazione costituzionale. E la sostanza attesta che viene travolto il principio della separazione dei poteri e sono pregiudicate le garanzie dei diritti fondamentali, le due condizioni essenziali che l’art. 16 della Dichiarazione francese del 1789 poneva a fondamento della stessa esistenza di una Costituzione.

La nuova forma di governo è cucita su misura del Presidente Erdogan, in quanto adotta alcuni aspetti del modello presidenziale, ma non il sistema di checks and balances chiamato a garantire l’equilibrio fra i poteri. Così il Presidente viene eletto dal popolo in concomitanza con il Parlamento e l’abolizione del divieto di continuare a far parte di un partito politico può consentirgli di essere il leader della maggioranza parlamentare. Può essere rieletto per altri due mandati, ma anche per un terzo qualora il Parlamento nel corso del secondo mandato presidenziale abbia deliberato a maggioranza dei tre quinti il proprio scioglimento, che comporta la simultanea elezione di un nuovo Presidente (per cui Erdogan potrebbe rimanere in carica almeno fino al 2019, ma anche oltre). Il Presidente diventa capo dell’esecutivo e titolare dell’indirizzo politico, nomina senza il consenso del Parlamento e può revocare i Vicepresidenti e i ministri che non costituiscono un organo collegiale. L’unica responsabilità alla quale è soggetto è di tipo penale per i reati funzionali, ma la procedura di impeachment è di difficilissima attuazione, richiedendo varie maggioranze qualificate del Parlamento (assoluta per l’iniziativa, dei tre quinti per l’apertura dell’indagine, di due terzi per il rinvio a giudizio) e la decisione sulla rimozione della Corte costituzionale, composta da membri in massima parte nominati dal Presidente. I poteri presidenziali sono molti e determinanti: la decretazione discrezionale dello scioglimento del Parlamento, che comporta anche una nuova elezione presidenziale e potrà essere utilizzata per garantire l’elezione di una maggioranza parlamentare filo-presidenziale; l’adozione di decreti con forza di legge in un ampio arco di materie (compresa quella attinente alla procedura per la nomina e la revoca dei componenti del Governo e delle alte cariche dello Stato) che non sono sottoposti al controllo parlamentare; il ricorso allo stato di emergenza in presenza di un ampio ventaglio di presupposti, che comporta l’utilizzazione ancora più estesa del potere di decretazione. Vi è quindi una forte concentrazione di poteri che sacrifica il principio della divisione dei poteri. A tale concentrazione è funzionale l’assetto degli organi di garanzia. Il Consiglio dei giudici e procuratori viene costituito da tredici membri, sei dei quali (compreso il ministro della giustizia e il relativo sottosegretario) sono nominati direttamente dal Presidente della Repubblica e sette sono eletti dai tre quinti del Parlamento e quindi saranno appannaggio in tutto o in larga parte della maggioranza. In pratica l’organo di governo della magistratura viene privato di ogni autonomia nei confronti del potere politico e quindi sono pregiudicate l’indipendenza della magistratura e le garanzie dei diritti dei cittadini. La Corte costituzionale viene ridotta da diciassette a quindici componenti, dodici dei quali, compreso il Presidente, sono nominati dal Capo dello Stato e non ha il potere di decidere sulla costituzionalità dei decreti presidenziali.

A fronte del tentativo autoritario in atto in Turchia le reazioni a livello europeo appaiono timide e inadeguate. Vanno senz’altro apprezzati gli interventi della Commissione di Venezia e in particolare il parere ampio e documentato sugli emendamenti costituzionali reso il 13 marzo 2017, che condanna senza mezzi termini le procedure della revisione costituzionale, le condizioni di svolgimento della campagna referendaria, il contenuto delle modifiche, tendente ad instaurare un iperpresidenzialismo di stampo autoritario. Va anche ricordata la decisione, adottata dall’Assemblea generale della Rete europea dei Consigli di giustizia, tenutasi a L’Aja l’8 dicembre 2016, di sospendere l’Alto Consiglio dei giudici e dei procuratori di Turchia, le cui azioni e decisioni sono state ritenute non conformi agli standard che caratterizzano gli organi di governo della magistratura europei e al principio della indipendenza nei confronti del potere esecutivo. Per il resto non vi sono nette prese di posizione ufficiali degli atri organi del Consiglio d’Europa e di quelli dell’Unione Europea. Anche di fronte alla minaccia di Erdogan di ripristinare con referendum la pena di morte, che era stata abolita nel 2004, la reazione è stata più di imbarazzo che di aperta condanna. Viene il sospetto che abbia un peso importante l’accordo sui migranti stipulato nel marzo del 2016 fra UE e Turchia, che prevede il loro confinamento in appositi campi profughi sul territorio turco a spese dell’Unione, dando per buono l’impegno turco alla protezione dei migranti in base agi standard internazionali. Ma quanto può essere credibile la promessa del Governo di un Paese nel quale sono messi in discussione sia la democraticità dell’assetto dei poteri sia la tutela dei diritti fondamentali dei suoi stessi cittadini? Da qui emerge un’ulteriore ragione di impegno a fianco dei colleghi turchi che hanno denunciato la deriva in atto e nei confronti dei governi e degli organismi europei perché le ragioni della realpolitik non prevalgano su quelle della democrazia.