di Giulia G. Carboni

Con la sentenza del 24 gennaio 2017 la Corte Suprema del Regno Unito, con una maggioranza di 8 giudici su 11, ha confermato la decisione dell’Alta Corte del 3 dicembre 2016, che aveva negato al Governo il potere di esercitare il recesso dall’Unione europea ai sensi dell’art. 50 TUE senza l’autorizzazione del Parlamento.

La motivazione della decisione si basa su un duplice argomento: il Governo non può decidere da solo un cambiamento del sistema costituzionale delle fonti, di cui fanno parte a pieno tiolo quelle europee, ne può modificare i diritti dei cittadini britannici che derivano dalle fonti europee. La Corte ha inoltre stabilito che la decisione sul recesso, e più in generale le relazioni con la Ue sono di esclusiva competenza di Westminster, e non afferiscono a materie devolute ai Parlamenti territoriali.

Dunque, la decisione spiega i suoi effetti, oltre che nei rapporti tra Regno Unito e UE, sull’assetto costituzionale britannico, ed in particolare sulla divisione dei poteri tra Parlamento-Governo e tra autorità statale e enti devoluti.

La sentenza non si occupa invece di definire in alcun modo i rapporti tra il voto referendario e l’ormai inevitabile voto parlamentare, scegliendo di considerare il referendum un atto dal significato eminentemente politico. Infatti, benché la Costituzione britannica venga definita dalla stessa Corte (par. 40) una combinazione di leggi, eventi, convenzioni, dottrina e decisioni giudiziarie (statutes, events, conventions, academic writings and judicial decisions) che formano un sistema flessibile e adattabile al contesto politico, il referendum non sembra costituire un evento costituzionalmente rilevante.

Secondo la Corte il referendum ha una forza che deriva dall’atto istitutivo: potrà essere, in altri termini, consultivo o vincolante. Poiché il Referendum Act 2015 ha introdotto un referendum consultivo, esso non vincola in alcun modo il Parlamento. Ma vi è un ulteriore argomento che fa ritenere ai giudici che la consultazione popolare necessiti di un’attuazione legislativa (non è sufficiente quindi una semplice deliberazione parlamentare). Essendosi espresso sulla permanenza o l’uscita dall’Unione europea, l’elettorato britannico non ha potuto manifestare un indirizzo sulle conseguenze dell’uscita dalla UE (par. 116-120). Questa decisione dovrà essere necessariamente affidata a una legge del Parlamento.

La Corte non accoglie quindi la teoria di quella dottrina minoritaria che anche nel Regno Unito ha sostenuto e sostiene la rilevanza dei referendum su materie di rango costituzionale (concetto espresso anche da alcuni documenti parlamentari) e afferma per essi la piena legittimità democratica del processo decisionale referendario (Tierney). A sostegno della decisione la Corte richiama le conclusioni del documento della House of Lords Select Committee on the Constitution (Referendums in the United kingdom) e la risposta del Governo (Committee’s Fourth Report of Session 2010-11).

Il sistema costituzionale britannico sembra dunque aver assorbito gli effetti del referendum, riconoscendo al principio della sovranità parlamentare una netta primazia sulla sovranità popolare e respingendo la portata anti-egemonica del voto nei confronti dell’Esecutivo.

Quanto al primo punto, non vi è dubbio che il referendum negli ultimi anni abbia contribuito, assieme ad altri fattori, all’erosione della sovranità parlamentare e che il riconoscimento al Governo del potere di recesso, in virtù del mandato popolare, avrebbe ulteriormente indebolito il Parlamento.

Resta da vedere se questa ricostruzione sarà corroborata dai fatti, e se gli attuali equilibri interni alle due Camere (il riferimento è in particolare alla House of Lords) determineranno un esito scontato della decisione parlamentare, che secondo molti commentatori non può che essere nel senso voluto dalla maggioranza dei votanti.

Certo, se il Parlamento dovesse esprimersi smentendo il voto popolare, o modificando in modo radicale il percorso tracciato dalla May nel suo discorso del 17 gennaio 2017, si porrebbe non solo il problema della tenuta del Governo ma anche un problema di compatibilità tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. D’altra parte, la decisione della Corte di ricondurre l’operato del Governo al mandato parlamentare indebolisce l’Esecutivo, che in mancanza di un chiaro mandato popolare sugli effetti del Leave è costretto a muoversi in uno spazio molto ristretto. La proposta di alcuni autorevoli costituzionalisti di indire un secondo referendum che riguarderebbe l’accordo da siglare con l’Unione europea appare al momento improbabile.

Spostando l’attenzione sul rapporto tra referendum e Governo, occorre sottolineare la facilità con la quale l’esecutivo guidato dal Partito Conservatore ha tramutato la sconfitta dell’ala europeista del partito, che si riconosceva nella leadership di Cameron, in una vittoria della componente euroscettica riunita sotto la leadership della May. La vicenda è il simbolo dell’opportunismo politico che i due maggiori partiti britannici hanno dimostrato nei confronti dei referendum europei. Cameron ha cercato di usare il referendum per rafforzare il proprio indirizzo europeo, ma dopo la sconfitta è stato costretto a dimettersi; il Governo è rimasto in carica, con un nuovo Primo Ministro, che sul referendum ha costruito un nuovo indirizzo europeo, di segno assai diverso dal suo predecessore.

Il referendum ha prodotto inizialmente un effetto anti-egemonico, ma il partito di Governo ha potuto rapidamente riprendere il controllo dell’agenda politica. La sentenza respinge la pretesa dell’Esecutivo di fondare la propria azione sull’appello diretto al popolo. Per difendere la sovranità parlamentare la Corte delimita gli effetti del referendum, confinando in un ambito esclusivamente politico il significato del voto.

Nonostante la Corte abbia dichiarato l’irrilevanza giuridica dell’istituto, il referendum, da elemento estraneo al sistema costituzionale britannico, è divenuto parte integrante dell’ordinamento, senza però assurgere a principio fondamentale. Resta da chiedersi per quanto potrà resistere una ricostruzione giuridica che ignora la forza politica del voto referendario, il quale, come detto, è già in grado di vincolare le scelte del Parlamento, che non potrebbe secondo la maggioranza dei commentatori capovolgere il senso del voto, ma solo decidere sul come e quando darvi attuazione. Con buona pace della sovranità parlamentare.

Un’ultima riflessione sugli effetti del referendum per il processo di integrazione: dopo la sentenza della Corte Suprema probabilmente la Brexit subirà un rallentamento, e non è affatto certo che la Premier May riuscirà ad avviarlo entro il 31 marzo. Tuttavia, l’esito del voto del 24 giugno 2016  continua ad avere un effetto dirompente sulla struttura e l’azione dell’Unione, che ne ha preso atto nella composizione di alcuni organi e nella rotazione delle presidenze. Lungi dal produrre solo effetti politici il referendum sulla Brexit ha già prodotto, almeno a livello europeo, numerosi effetti giuridici.