di Guerino D'Ignazio

Finalmente è finita! La lunga e orribile campagna elettorale è finita. Il brusco risveglio di questa mattina, 9 novembre, ci ha messo davanti alla novità, impensabile qualche mese fa, che Donald Trump, il tycoon newyorkese, è stato eletto Presidente degli Stati Uniti, battendo la sua rivale, Hillary Clinton, che ambiva a diventare la prima donna che avrebbe vissuto nella Casa Bianca e non da First Lady. I profili dei due candidati, un uomo d’affari aggressivo e la moglie di un ex presidente, ci hanno spesso fatto venire in mente alcuni stereotipi che ancora abbiamo sulla classe politica di alcuni paesi dell’America latina e, invece, li abbiamo dovuti collocare nel Paese simbolo della liberal-democrazia. Inoltre, dovremo abituarci a collocare un personaggio unico e irripetibile come Donald Trump, il primo Presidente che non ha mai rivestito incarichi pubblici o militari, tra le mura della Casa Bianca.

La lunghissima e mediocre campagna elettorale fa emergere un futuro pieno di incognite. Martedì scorso, quando ancora la Clinton era favorita, David Brooks titolava il suo articolo sul New York Times “Let’s Not Do This Again” (cerchiamo di non farlo di nuovo), per mettere in evidenza quanto sia stata orribile e insopportabile la campagna elettorale che abbiamo vissuto. L’abbassamento del dibattito politico, gli scandali, le invettive, la continua delegittimazione ci hanno restituito un Paese profondamente spaccato e diviso con lo sguardo rivolto al passato e incapace di avere una visione del futuro. Lo scrittore newyorkese Foer si chiedeva se non fosse ormai definitivamente svanito il ‘sogno americano’. Se Trump, facendosi interprete delle frustrazioni e delle delusioni della società americana e alimentando ulteriormente l’odio e la rabbia, non avesse sepolto per sempre la visione ottimistica verso il futuro, facendo prevalere, invece, i sentimenti oscuri e profondi presenti nella ‘pancia’ della società americana. Ma ormai la lunghissima campagna elettorale, con tutto quello che è avvenuto in questi ultimi 18 mesi, comincia a sbiadire di fronte allo shock dei risultati elettorali. Il popolo della rivolta, la working class bianca, i dimenticati e gli emarginati a causa della globalizzazione, della delocalizzazione e del progresso tecnologico si sono presi la rivincita, eleggendo alla Casa Bianca la persona che ha saputo raccogliere la loro rabbia e le loro paure. Lo stesso popolo ha consegnato a Trump tutti gli Stati in bilico, situati prevalentemente nella Rust Belt, nella ‘cintura della ruggine’, epicentro della crisi dell’industria pesante. Il consenso istintivo in favore del ‘semplificatore’, in grado di trovare gli slogan più immediati ed efficaci, si è unito alla irrazionalità e alla forte volontà di cambiare a tutti i costi i soggetti collegati all’establishment di Washington e di trovare una nuova rappresentanza politica. Ma è un cambiamento rivolto al passato! Lo stesso slogan “Make America Great Again”, usato da Trump nei suoi tour elettorali per tutti gli Stati, rivela la nostalgia di un passato che non può più tornare, la voglia di un ripiegamento verso altri tempi che finirebbe per indebolire la leadership economica nel mondo.

Adesso si apre una fase nuova, ritengo inedita, all’interno del sistema politico-istituzionale degli Stati Uniti e anche all’esterno, principalmente per l’Unione Europea. Intanto, il ‘trumpismo’ ha sconquassato il sistema politico statunitense. ‘The Donald’ ha vinto senza il forte sostegno del suo partito, che in molte occasioni ha preso le distanze dal candidato, e ha battuto la candidata dell’establishment del partito Democratico, che si era unito per appoggiare Hillary Clinton. Il partito Repubblicano continua ad avere la maggioranza sia in Senato che nella Camera dei Rappresentanti, ma non sono da escludere resistenze alle politiche del Presidente. Il partito Democratico, invece, dovrà ripensare radicalmente alle proprie strategie future, dal momento che è stato battuto da un candidato che, si può dire, ha corso da solo, anche senza l’endorsement dei mass-media. Il primo banco di prova, dopo il 20 gennaio, giorno del giuramento del Presidente, sarà la nomina del nono giudice della Corte Suprema, dal momento che la proposta di Obama, di nominare Merrick Garland, è stata bloccata proprio dal Senato, a maggioranza Repubblicana.

Infine, durante la campagna elettorale, Trump non ha nascosto il suo orientamento verso forme di protezionismo e il suo scetticismo nei confronti delle relazioni con l’Unione europea, che non sa contrastare l’immigrazione e non riesce neanche ad attuare politiche di integrazione. Inoltre, più volte ha ribadito di non ritenere importante la NATO e, quindi, l’impegno degli Stati Uniti nella sicurezza dell’intera Europa, che è stata una costante della politica estera americana dalla seconda guerra mondiale in poi. La forte sintonia con Vladimir Putin, il primo Capo di Stato a congratularsi con lui per la vittoria elettorale, dimostra che è prevedibile il rischio di un cambiamento profondo della politica estera nei confronti dell’Europa. I leader politici europei non devono soltanto preoccuparsi per le tendenze isolazioniste del nuovo Presidente, ma anche per l’effetto rafforzativo verso tendenze xenofobe e anti-europee che la vittoria di Trump potrebbe avere su alcuni uomini politici, a cominciare da Le Pen in Francia e Orban in Ungheria, senza tralasciare Salvini in Italia e altri leader di movimenti politici euroscettici in altri Paesi. Sapranno i leader dei Paesi europei interpretare il campanello d’allarme che viene dagli Stati Uniti e mettere da parte gli egoismi nazionali che, in questo momento, dopo la Brexit e dopo l’elezione di Trump, potrebbero realmente portare alla disgregazione dell’UE? Spero che la presidenza Trump possa rappresentare un rilancio ‘salutare’ del progetto di integrazione europea che, negli ultimi anni, sembra non sia più nell’agenda della stessa classe politica europea.