di Ginevra Cerrina Feroni - 18 luglio 2017 

Non può che essere accolta con favore la decisione, saggia, del Premier Gentiloni di rinviare all’autunno la discussione sullo ius soli. Saggia, dopo che per settimane abbiamo assistito ad una surreale pressione-urgenza del Governo, e del partito di maggioranza, nel volere introdurre, addirittura col voto di fiducia, la modifica della legge sulla cittadinanza del 1992. Surreale non per i contenuti della proposta - che seppur non pienamente condivisibili, meritavano di essere valutati nel dettaglio - quanto piuttosto per i tempi e le (paventate) modalità della sua approvazione parlamentare.

In un contesto emergenziale di sbarchi, con strutture di accoglienza al collasso e Sindaci in rivolta, ci si chiede se questa divisiva discussione non sia stata spinta oltre ogni ragionevole limite.

Il tutto è ora rinviato a dopo l’estate. E, probabilmente, al nuovo Parlamento. Il che sarebbe certamente auspicabile, considerato che un Governo agli sgoccioli, e con alle spalle la storia di questa legislatura, non è il più “politicamente legittimato” ad affrontare un nodo di tale delicatezza. Si parla di oltre 800 mila potenziali nuovi beneficiari della riforma della cittadinanza e di una futura naturalizzazione di quasi 60 mila nuovi italiani ogni anno. Non proprio briciole.

Nel merito la proposta sullo ius soli si poneva un giusto e condivisibile obiettivo: sanare la situazione di tante persone, specialmente giovani, nati e cresciuti in Itala, cittadini di fatto ma non di diritto. Insopportabili però gli slogans con i quali essa è stata presentata (la “battaglia di civiltà”). Come se, nel nostro Paese, sullo ius soli si partisse da zero. Come se non esistesse la legge del 1992, la quale, seppur certamente carente, consente tuttavia – è bene ricordarlo - allo straniero nato in Italia, e che qui abbia risieduto legalmente senza interruzione fino alla maggiore età, di divenire cittadino al raggiungimento di quest’ultima, presentando richiesta. Dimenticando anche (non a caso?) che l’Italia non è un Paese ingeneroso in punto di conferimento di cittadinanza: i dati Istat parlano di 200.000 nuovi italiani solo nel 2016. Neppure queste sono briciole. Dimenticando infine - ha ragione il collega Ciro Sbailò (in questo forum) - che la cittadinanza non è un diritto.

Ma aldilà di ciò, sono proprio  i contenuti della proposta a dover essere ripensati, anche solo considerando le esperienze di altri Paesi, rispetto alle quali lo ius soli, modello-italiano, è costruito a maglie tendenzialmente più larghe.

Da noi, infatti, acquisterebbe la cittadinanza italiana chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia titolare del diritto di soggiorno permanente (per gli stranieri UE), o in possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo (per gli stranieri extra UE). In entrambe le fattispecie il requisito temporale per il permesso è il medesimo: soggiorno per cinque anni sul territorio italiano, cui si aggiunge, per lo straniero extra UE, la dimostrazione di disporre di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale; di un alloggio idoneo a termini di legge; del superamento di un test di conoscenza della lingua italiana. In tal caso la cittadinanza verrebbe acquisita dal minore, entro il compimento della maggiore età, in modo sostanzialmente automatico. Sarebbe sufficiente la dichiarazione di volontà espressa da un genitore (o da chi esercita la responsabilità genitoriale) all'ufficiale dello stato civile del Comune di residenza del minore. Esclusi gli Stati Uniti - Paese che per storia e tradizione non è, sotto questo profilo, utilmente comparabile - in Europa lo jus soli  o non è contemplato (come in Svizzera); o dove esisteva in forma pura (come in Irlanda) è stato sottoposto nel tempo a restrizioni; oppure vige ma in una forma temperata (come in Olanda, ma anche nel Regno Unito, in Francia, Germania). Nel Regno Unito, i figli di stranieri nati nel Paese acquisiscono la cittadinanza, ma i genitori devono essere titolari di un permesso di soggiorno permanente od essere residenti da 10 anni. In Francia  la semplice nascita nel territorio nazionale non rileva ai fini dell’attribuzione della cittadinanza. Ogni bambino ivi nato da genitori stranieri acquisisce automaticamente la cittadinanza francese al momento della maggiore età se, a quella data, ha la propria residenza in Francia o vi ha avuto la propria residenza abituale durante un periodo, continuo o discontinuo, di almeno 5 anni, dall’età di 11 anni in poi. In Germania acquisiscono automaticamente la cittadinanza i figli di stranieri che nascono in terra tedesca, purché almeno uno dei genitori risieda abitualmente e legalmente nel Paese da almeno 8 anni e goda del diritto di soggiorno a tempo indeterminato.

La seconda fattispecie, a dir poco vaga, è quella dello ius culturae: acquisterebbe la cittadinanza italiana il minore straniero, nato in Italia (o che vi abbia fatto ingresso entro i 12 anni di età), che abbia frequentato, per almeno cinque anni, uno o più cicli di istruzione o percorsi di formazione professionale (triennali o quadriennali) idonei al conseguimento di una qualifica professionale. Anche in tal caso, la cittadinanza si acquisterebbe mediante dichiarazione di volontà espressa da un genitore legalmente residente in Italia (o da chi esercita la responsabilità genitoriale) all'ufficiale dello stato civile del Comune di residenza del minore, entro il compimento della maggiore età dell'interessato.

Ma quali sarebbero i contenuti, appunto culturali, dello ius culturae? Quali sarebbero gli strumenti per verificare la regolare frequenza a cicli scolastici (aldilà del corso di istruzione primaria per il quale è necessario la sua conclusione positiva)? Come accertare la reale integrazione dei giovani stranieri attraverso il sistema di istruzione? Quali parametri per valutare le competenze linguistiche?

Ci sarà tempo per riparlare di tutto ciò. Come anche per valutare un elemento che è rimasto finora sullo sfondo, e messo opportunamente in luce da Luigi Melica (ancora in questo forum): ovvero il rapporto tra nuove norme sulla cittadinanza e legge sull’immigrazione, che consentirebbe l’inquietante prospettiva di numeri considerevoli di persone, anche irregolari, legittimati ad ottenere un’autorizzazione a restare in Italia a tempo illimitato.

Adesso però la priorità è un’altra. Gli sbarchi. A fronte dell’imbarazzante silenzio delle istituzioni europee, e non essendovi margini per una solidale condivisione di responsabilità da parte di Spagna e Francia sull’apertura dei propri porti, non resta molto da fare. Se non agire direttamente sul Trattato Triton che contempla, solo per l’Italia, il salvataggio dei migranti nel Mediterraneo, anche se giunti a bordo di navi straniere. Il Trattato era stato, presumibilmente, sottoscritto dal nostro Paese, sulla base di una previsione di ingressi ben minori rispetto a quelli che si stanno oggi verificando. Si ha, dunque, una sopravvenienza non prevista di circostanze che, in base alle regole del diritto internazionale, potrebbe consentire di rimetterlo in discussione. Anzi, stante la gravissima situazione, parrebbe giustificabile l’adozione, da parte dell’Italia, di misure unilaterali di sospensione del Trattato e, financo, di misure ancora più drastiche, come il recesso.

Insomma servono fatti, non più parole. Solo così, forse, potrebbe smuoversi qualcosa in Europa.

Forse.