di Guido Guidi, 9 aprile 2018 * 

 

Nell’introdurre il convegno voglio partire dal confronto dialettico intercorso, a distanza di molto tempo, tra William Butler Yeats, premio Nobel per la letteratura nel 1923 e Robert Hughes, critico d’arte di origine australiana, polemista, com’è stato definito, del “politicamente corretto”[1].

Yeats, è stato buon frequentatore del nostro Paese: Ferrara, Ravenna, Urbino. Era affascinato dal Palazzo Ducale (di Urbino) che ci ospita. Ha dedicato a Guidobaldo da Montefeltro alcuni versi. Questi: «Quando [Guidobaldo] creò / quella scuola esemplare di cortesie / sopra il colle ventoso di Urbino / non mandò qua e là i suoi messi / a conoscere il volere dei pastori». Intendeva in questo modo manifestare la propria concezione, assolutamente elitaria e aristocratica, della Bellezza e delle bellezze di questo Palazzo.

          Molti anni dopo (1992) in polemica con lui, Robert Hughes, nell’ambito di un ciclo di conferenze, tenute in diverse università statunitensi sul tema del rapporto tra morale e cultura, dalle pagine di Time Magazine, replicava a Yeats in questo modo: «La gente dei campi, quei pastori che Yeats legittimamente ritiene non siano stati consultati da Guidobaldo sul gusto e sulle buone maniere, non potrebbero aver avuto anch’essi una loro civiltà?». In verità, aggiungeva: «Le classi inferiori qualcosa hanno fatto per creare la ricchezza materiale su cui è sorta la corte di Urbino e la civiltà in generale […]. Il loro merito è quello di aver creato un’altra opera d’arte, il paesaggio

 

tosco-marchigiano, che ha la funzione di dare a noi l’impressione di un ordine senza tempo».

          Nella narrazione di Hughes  c’è tutto il senso del convegno: le corti, i palazzi, le rocche, le torri, i castelli, i tempi, le pievi, i borghi campagnoli, i campanili non sarebbero quel che sono, senza l’opera del contadino e del pastore, che concorrono a disegnare, con la loro opera, il paesaggio circostante. Infatti, finiscono per conferirgli un aspetto cambiante, secondo il “giro delle stagioni”, cioè con il cambiare del tempo, che torna ciclicamente nella “temporalità infinita”[2].

Il convegno si propone di documentare questa trama: tra paesaggio, cultura e agricoltura. Un reticolo oggettivo, non solo soggettivo. Una concatenazione di manifestazioni, che ha origine nel mondo delle lettere, dell’arte[3], della filosofia e oggi gode, finalmente, dei giusti riconoscimenti del diritto. Di qui il carattere interdisciplinare del convegno.

Del paesaggio se ne occupano innanzitutto i filosofi, i più grandi, da Kant a Hegel. I poeti. Più recentemente gli storici dell’arte, gli urbanisti, gli architetti, i cultori di geografia, di ecosistema, gli agronomi, gli ambientalisti, i geologi. I giuristi vengono ultimi. Soprattutto dopo il 1948, quando il paesaggio è entrato ufficialmente nel Testo della Costituzione, ed ha acquistato la corporeità, anche se relativa, che gli dà il diritto, nella sua massima espressione, quella costituzionale.

Il riferimento è all’articolo 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione» (secondo comma). Una disposizione di carattere tecnico, dettata dalla necessità di sottrarre competenze alle regioni per riservarle allo Stato? Una disposizione “di polizia”, di quelle che fanno presagire la possibile imposizione di vincoli a tutela? Molto, molto più.

 Infatti, al di là delle intenzioni dell’on. Concetto Marchesi, che l’aveva immaginata così. Incastonata tra i Principi Fondamentali, non semplicemente dentro un Preambolo. Coesistendo con i massimi principi costituzionali (sovranità, uguaglianza, separazione Stato-Chiesa), deve per forza significare qualcosa di diverso e di più alto rispetto al mero criterio di riparto delle funzioni.

Nella ricerca di questo maggior senso, ci aiuta Peter Häberle - costituzionalista e filosofo - quando afferma che le Costituzioni sono sinonimo di scienza della cultura, il luogo dove si condensa la cultura di un popolo. Su queste basi, l’inserimento dell’art. 9 tra i Principi Fondamentali, come scelta e non puro accidente, non può che rispondere a un’idea mirata, ponderata, pur se immaginata nel ‘47 soltanto da una minuscola élite di pensiero.

Il Codice dei beni culturali (2004-2006-2008) ne esplicita, in modo nitido e innovativo, il suo miglior senso. Identifica infatti il paesaggio con il «territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni» (art. 131).

Questa definizione, con un salto dialettico rispetto alla tradizione giuridica precedente, dominata dal predominio degli elementi “estetici”, identifica una rappresentazione più larga del paesaggio: il cosiddetto paesaggio “identitario”, “culturale” o “antropico”, che si compone della somma degli apporti della natura, dell’uomo e delle loro interrelazioni. In questa prospettiva identitaria il paesaggio manifesta il volto storico del territorio, andando ben oltre le «Bellezze Naturali».

 È per questo che Alberto Predieri può affermare che il territorio non è soltanto uno degli aridi elementi costitutivi dello Stato. Non è solo lo spazio fisico, o geografico, dove si esercita la sovranità statale[4]. Non è «un factum brutum» secondo l’espressione di Peter Häberle, ma il luogo «nel quale si è impressa la cultura, oppure «il Paese che la cultura rende unico»[5]. Secondo Rosario Assunto è un elemento naturale che «contempliamo non da spettatori, ma da attori»[6]. Secondo il filosofo e poeta svizzero Henri-Frédéric Amiel: «uno stato dell’animo».

Siamo di fronte a un vero e proprio salto dialettico, che rende più facile l’equiparazione che l’art. 9 Cost. compie tra paesaggio e  patrimonio storico e artistico della Nazione.

Attraverso questa congiunzione, sicuramente non accidentale, la Costituzione accomuna le bellezze “preesistenti” (che abbiamo “trovato”) alle bellezze “fabbricate” che abbiamo in tanti modi costruito[7]. Entrambi compongono il patrimonio culturale della Nazione ed evidenziano la geografia esistenziale del popolo italiano.

 Con la congiunzione di queste due grandezze, il paesaggio guadagna la propria nobiltà giuridica, supportato dalla matrice idealista crociana, secondo cui la natura non esiste come dato autonomo e oggettivo, ma solo come fenomeno “vivo”, cioè dialettico nel rapporto che corre tra l’uomo e la natura[8].

 A chi si deve l’ideazione geniale dell’art. 9 Cost.? Il testo che abbiamo oggi non è quello partorito dalla Commissione dei 75. Scaturisce forse dal Comitato di Redazione (dei 18), che ha accompagnato tutti i lavori della Costituente, senza tenere un Verbale dei suoi lavori. Del Comitato di Redazione faceva parte anche Piero Calamandrei.

Vi leggo, per chiudere, una pagina illuminante del discorso che Calamandrei ha tenuto il 15 settembre 1944, a pochi giorni dalla fine della guerra, per il suo insediamento quale Rettore dell’Università fiorentina, da poco liberata. Come non cogliervi l’”ultimo orizzonte” dentro cui si sono mossi i costituenti?

«… E non insistiamo su queste sciagure individuali che hanno colpito ognuno di noi nelle persone più dilette, nei beni più cari: tutti noi siamo individualmente in lutto e dobbiamo far tacere, in questa comunanza di dolore che ci avvicina come fratelli, le nostre pene private. Ma, quello che più ci ha offeso è stato l’assassinio premeditato delle nostre città, dei nostri villaggi, delle nostre campagne, perfino del nostro paesaggio. Voi lo sapete: in Italia e specialmente in Toscana, ogni borgo, ogni svolto di strada, ogni collina, ha un volto, come quello di una persona viva: non vi è curva di poggi o campanile di pieve che non si affacci nel nostro cuore col nome di un poeta o di un pittore, col ricordo di un evento storico che conta per noi quanto le gioie o i lutti della nostra famiglia.  Non si tratta di letteratura, si tratta di vita. Mai come in questi mesi in cui sui bollettini di guerra cominciavamo a leggere con un tremito i luoghi della Toscana, abbiamo sentito che questi paesi sono carne della nostra carne, e che per la sorte di un quadro o di una statua o di una cupola si può stare in pena come per la sorte del congiunto o dell’amico più caro. C’è tra Arezzo e San Sepolcro un piccolo paese che si chiama Monterchi, vicino al quale, in un camposanto in mezzo alla campagna, regna in solitudine il più bel quadro di Piero della Francesca, la Madonna del Parto, la  celebrazione più solenne e più austera della gloria della maternità: non è passato un giorno che io non abbia pensato, come pensavo ai miei parenti ed ai miei amici in pericolo, a quel quadro abbandonato ai tedeschi. Che ne sarà successo? Si sarà salvato? Noi non lo sappiamo ancora». «Ma di lì a poco ci arrivò la notizia che la Madonna era salva».

 

* Introduzione al Convegno sullo stesso tema, tenutosi a Urbino, Palazzo Ducale, Giardino d’Inverno, 7-8 aprile 2017

[1] Robert Hughes, La cultura del piagnisteo, Milano, 1993, Adelphi Edizioni.

[2] Così R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, Palermo, Edizioni Novecento, 1994, 135, 138.

3 R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, cit., 21 e 23, definiva il paesaggio come «il paese considerato dal punto di vista della visione artistica».

[4] A. Predieri, Paesaggio, in Enciclopedia del Diritto,, Milano, Giuffrè, 1981, 519.

[5] P. Häberle, Per una dottrina della costituzione come scienza della cultura, Roma, Carocci, 34.

[6] R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, cit., 162.

[7] Secondo la distinzione di Heidegger, in Adriano Ardovino, cur., Dell’origine dell’opera d’arte e altri scritti, Palermo, Centro Internazionale Studi di Estetica, 2004. Anche Benedetto Croce, nel suo “Breviario di estetica” del 1912, scriveva: «É evidente che, oltre gli strumenti che si foggiano per la riproduzione delle immagini, possono incontrarsi anche oggetti già esistenti, prodotti o non dall’uomo, che adempiano a tale ufficio, che siano più o meno adatti a fissare il ricordo delle nostre intuizioni».

[8] B.Croce, Contributo alla critica di me stesso, Adelphi, Milano, 1989.