di Ciro Sbailò - 13 luglio 2017  

Ringrazio l’amico Stefano Ceccanti [11 luglio 2017] per le obiezioni che ha fatto al mio intervento sullo ius soli [10 luglio 2017]. Questo mi dà l’occasione per fare alcune precisazioni, in spirito di parresia.

Faccio qui una sintesi – spero chiarificatrice - del mio ragionamento.

Punto primo. Le contraddizioni.

Le contraddizioni rilevate nel mio intervento sono le contraddizioni del disegno di legge, che ho cercato di far risaltare per paradosso. Il disegno di legge muove dal presupposto (da me non condiviso) che la cittadinanza vada riconosciuta a chiunque nasca in Italia o vi faccia ingresso da bambino. Ma il presupposto non viene adeguatamente sviluppato. Forse per scarsa convinzione, forse per il timore di gravi conseguenze politiche (conflitti nella maggioranza, in primo luogo). Per questo, in un modo che a me pare maldestro, si cerca di nascondere o temperare l’automatismo dello ius soli attraverso lo ius culturae.  Ritengo che questo stratagemma nell’ordinamento italiano non possa funzionare e che, alla fine resterebbe, solo l’automatismo dello ius soli.

Punto secondo. Il “progetto politico”

Dalla lettura del disegno di legge ricavo l’impressione di una grande incertezza intorno agli esiti e agli obiettivi della riforma della cittadinanza. Di norma, una legge sulla cittadinanza imperniata sullo ius soli presuppone un disegno politico di integrazione. Tale disegno non è generalizzato, ma diretto a determinate comunità in determinati contesti storici (ho fatto cenno agli esempi di USA, Francia e Regno Unito). Qual è il progetto alla base di questa proposta di legge? “Chi” si vuole integrare?

Punto terzo. La questione islamica.

A questo punto del ragionamento c’è stato un passaggio un po’ brusco (lo ammetto: un omaggio all’amore della sintesi, forse in questo caso con involontari effetti brutalizzanti) sulla questione islamica. Mi pare tuttavia innegabile che una parte molto consistente della popolazione presente in Italia e priva di cittadinanza appartenga all’Islam, cioè a una cultura rispetto alla quale si pongono problemi di integrazione molto più impegnativi per la Repubblica rispetto a quanti se ne pongano rispetto ad altre comunità. Mi rendo conto che questa potrebbe suonare come una posizione anti-islamica, ma non lo è: chi conosce l’Islam ne conosce e ne rispetta la vis espansiva nelle società e negli ordinamenti. È un dato di fatto che il dibattito sulla cittadinanza sia strettamente collegato a quello della regolamentazione della presenza islamica in Italia. Sul fatto che l'Islam non sia solo una religione e che esprima anche una propria legittima – ben strutturata, dinamica e non banalizzabile – filosofia di organizzazione dello spazio pubblico, qui non mi posso dilungare (ma si può aprire un forum a parte). Che esista una questione islamica ce lo dicono, del resto, il Parlamento  e il Governo.

Faccio fatica a capire come si possa affrontare la questione della riforma della cittadinanza senza avere le idee ben chiare su qual è la – o quali siano le – comunità che si è deciso di integrare nel tessuto civile della Repubblica. Se il Legislatore punta i riflettori su un tema, di norma è perché ha in mente un progetto e io vorrei sapere qual è questo progetto.

Punto quarto. Poco è meglio di niente? Dipende dal “poco”

I problemi della società multi-etnica (segnata, come dicevo, da una significativa presenza islamica) vanno affrontati in una chiave globale, ma il nodo principale da sciogliere è quello della gestione, anche in prospettiva, del fenomeno migratorio: su questo mi pare che vi sia una sostanziale convergenza tra gran parte delle forze politiche, di maggioranza e di opposizione. Se così, allora, la mia opinione è che la legge la riforma della cittadinanza vada collocata alla fine della costruzione di tale approccio, non all'inizio. Nel frattempo, si possono fare piccoli interventi mirati. Ad esempio, oggi la cittadinanza può essere attribuita agli stranieri che risiedono in Italia da almeno dieci anni e sono in possesso di determinati requisiti. Ma è un percorso a ostacoli, che può durare anche 12 o 15 anni. Che ci vuole, dunque, a ridurre gli anni da 10 a 8, in modo tale che siano veramente 10? E quanto ci vorrebbe, eventualmente, a rivedere tutta la normativa secondaria e tutta l’organizzazione amministrativa in materia di cittadinanza per far sì che poi gli 8 anni fossero a quel punto veramente 8 e non 10? A mio avviso, “poco”. Appunto.