di Carlo Casonato

I significati e le conseguenze delle elezioni statunitensi non sono né saranno pochi né di poco conto. In questo breve scritto vorrei trattare di tre ordini di considerazioni legate ai limiti diffusi delle diverse manifestazioni di democrazia diretta, ai possibili riallineamenti del sistema di checks and balances, all’auspicio di una discontinuità fra i contenuti della piattaforma elettorale e quelli dell’indirizzo politico-costituzionale che sarà effettivamente perseguito dal nuovo presidente.

Gli esiti delle elezioni statunitensi, anzitutto, fanno emergere interrogativi più generali – già oggetto di attenzione di questa Rivista – che si collegano ad alcune odierne difficoltà nell’utilizzo dei diversi strumenti di democrazia diretta.

Il referendum britannico sulla Brexit, come quello sull’accordo colombiano di pace con le Farc e – se si vuole – quello su cui saremo chiamati a votare in Italia il 4 dicembre sul progetto di riforma costituzionale pongono ai votanti una serie di questioni ampie, articolate e potenzialmente eterogenee. Di fronte alla natura così vasta e composita di tali interrogativi, ci si può chiedere se la logica binaria della risposta referendaria (sì-no) sia quella più appropriata e confacente. O se non si tratti, per così dire, di una “porta troppo stretta” per farvi transitare questioni talmente complicate.

Vi è un secondo elemento di complessità che confonde la visuale dell’elettore chiamato a decidere su tali ordini di interrogativi; elemento che ha caratterizzato tanto le consultazioni referendarie quanto le elezioni statunitensi. La società dell’informazione produce una massa di dati che provoca – non può non provocare – un elevato tasso di inquinamento informativo. E, spesso, maggiore è la quota di problematicità e di delicatezza della questione su cui decidere, maggiore sarà il numero delle fonti non controllabili e la circolazione di dati non attendibili.

Nonostante i tentativi di informare e sensibilizzare l’elettorato britannico sul significato dell’uscita dall’Unione prima della votazione, così, è stato solo dopo lo svolgimento del referendum che i motori di ricerca internet hanno registrato un’impennata di richiesta di informazioni in tema. A poche ore dall’esito della votazione, così, le tre principali domande rivolte a Google sono state: «What does it mean to leave the EU?»;  «What is the EU?»;  «Which Countries are in the EU?». Allo stesso modo, la promessa di investire nella sanità nazionale le centinaia di milioni di sterline “risparmiate” con l’uscita dall’Unione ha dovuto aspettare la chiusura delle urne e la pubblicazione dei risultati per essere smentita dagli stessi fautori della Brexit.

Secondo un canovaccio non così distante, Donald Trump, soprattutto, ha veicolato direttamente o indirettamente, una serie di notizie false, dal luogo di nascita di Barack Obama alla crescita esponenziale del numero di immigrati, dalle percentuali degli omicidii all’interno e fra i gruppi etnici alle sorti delle battaglie in Siria e Iraq.

Le conseguenze di tali elementi di complessità e disinformazione – ma altri se ne potrebbero aggiungere – portano il corpo elettorale a decidere non sul reale merito dei contenuti effettivi delle scelte da prendere, ma sulla base del maggior senso di affidamento e di empatia generato dai leader che sostengono l’una o l’altra posizione. Se tale profilo è in parte fisiologico, soprattutto nel dispiegarsi delle odierne forme di “rappresentanza di carattere personale”, ricerche di political science hanno dimostrato come il portato su larga scala di tale comportamento conduca ad una decisione sulla popolarità percepita della persona o delle persone che propugnano l’una o l’altra delle alternative proposte (secondo dinamiche di legittimazione carismatica) e non sul pregio delle questioni presentate. Ed anche l’attendibilità della comunicazione cede il passo rispetto al grado di appealing del comunicatore.

L’alternativa a tale stato di cose, ovviamente, non può consistere nella rinuncia alle diverse forme di democrazia diretta, come sopra intese: ciò comporterebbe il rischio (opposto) di rendere democraticamente indecidibili questioni pure rilevanti. Si dovrebbe piuttosto pretendere un maggior controllo, da parte dei mezzi di comunicazione di massa ad esempio, sull’attendibilità delle informazioni fornite da loro stessi e dalle public figures; e sforzarsi, a partire dalle nostre scuole e università, di condurre campagne di cultura civica complessiva e di sensibilizzazione sulle tematiche specifiche di volta in volta presentate, le quali siano tese a far prevalere i contenuti delle decisioni sull’attrattività dei proponenti.

In termini generali, viste le incognite degli istituti di democrazia diretta e la crisi permanente della democrazia rappresentativa, si potrebbero anche estendere le varie sperimentazioni legate a forme di democrazia partecipativa. Dopo il risultato non incoraggiante della cd. crowdsourced Constitution in Islanda, ad esempio, tale strategia è stata variamente attivata nelle due Province Autonome di Trento e di Bolzano allo scopo di rivedere i contenuti dello Statuto Regionale. Sarà interessante monitorare l’andamento e i risultati di tali esperimenti.

Un secondo profilo legato all’elezione statunitense è collegato al destino concreto che sarà riservato ai punti del programma della campagna elettorale con cui Donald Trump ha vinto su Hillary Clinton.

Fra essi vi sono la revoca dell’Affordable Care Act (il cd. Obama Care), il ridimensionamento del right to abortion, il disimpegno nei confronti dei mutamenti climatici, l’espulsione di milioni di immigrati clandestini – con la costruzione, forse, del muro lungo il confine con il Messico –, un divieto o un controllo sull’ingresso di musulmani sul territorio statunitense, una strategia commerciale protezionistica con l’imposizione di nuovi dazi sull’importazione, un riassetto complessivo della politica estera.

Impossibile in tale sede analizzare le conseguenze prodotte da una concreta realizzazione di tali politiche, anche perché quest’ultima dipenderà in gran parte dall’appoggio che il nuovo presidente avrà da parte della Camera dei Rappresentanti, del Senato e di altre istituzioni federali. Per tale profilo, come è stato per tutti i presidenti e in particolare per Barack Obama, la realizzazione delle promesse elettorali dipenderà da una serie di variabili che vanno dalla natura amministrativa o normativa della modifica proposta alle maggioranze richieste per superare l’opposizione parlamentare, fino alle reazioni che avrà la Corte Suprema, di cui Donald Trump potrà comunque indicare al Senato, già da subito, un candidato. La realizzazione dell’agenda elettorale, insomma, dipenderà in gran parte da come si riassesteranno i meccanismi di checks and balances tipici della forma di governo statunitense.

Un certo ridimensionamento dell’Obama Care, ad esempio, potrà essere effettuato per via amministrativa, mentre per superare l’opposizione all’abrogazione della legge servirebbe una maggioranza di 60 senatori, su cui il partito repubblicano non può contare. L’assistenza sanitaria, inoltre, ha avuto in questi anni copertura anche a livello statale, livello su cui il presidente non può avere il controllo. Anche la politica economica e in particolare fiscale dipenderà dalle maggioranze che Trump riuscirà a convincere nelle sedi parlamentari, atteso che non tutti i repubblicani potrebbero condividere la stessa strategia di tagli alla spesa pubblica federale e di deregolamentazione. È presumibile che la nuova presidenza si batterà per invertire il ruolo assunto dagli Stati Uniti nella lotta al cambiamento climatico. E nonostante il paese sia vincolato all’accordo di Parigi per almeno quattro anni, la usuale assenza di sanzioni per l’infrazione degli obblighi assunti a livello internazionale in materia ambientale potrà permettere al nuovo presidente di sentirsi sostanzialmente svincolato. Con un possibile effetto a catena che potrebbe indurre anche altri Stati, come l’India, a non rispettare i tetti di emissione stabiliti, con conseguenze che potrebbero coinvolgere l’equilibrio climatico e ambientale dell’intero pianeta.

L’intenzione di ridimensionare la portata del right to abortion si collega strettamente alla nomina del prossimo giudice della Corte Suprema che il nuovo presidente proporrà al Senato. Da questo punto di vista, Trump si è comportato in maniera del tutto inusuale durante la campagna elettorale, divulgando due liste di possibili nomi per un totale di ventuno possibili candidati al seggio che fu di Antonin Scalia. L’unica certezza, al riguardo, è che Trump proporrà figure dalla solida e chiara judicial philosophy conservatrice, forte di un Senato a maggioranza repubblicana. E la possibile sostituzione di altri due giudici, questa volta d’impostazione liberale, come Ruth Bader Ginsburg (di 83 anni) e Stephen Breyer (di 78), potrebbe offrire al presidente la possibilità di formare una Corte dal solido e duraturo impianto conservatore. Neppure in questo caso potrà però esagerare, vista la possibilità di opposizione democratica all’interno di un Senato che – come visto – non vede una decisa maggioranza di esponenti repubblicani.

Per quanto detto, non considero un’opzione antidemocratica quella che fonda l’auspicio che il nuovo presidente non voglia o non riesca a realizzare l’agenda elettorale su cui pure ha vinto le elezioni. La maggioranza repubblicana, sia alla Camera dei Rappresentanti che al Senato, potrebbe non essere così coesa nei confronti di un presidente che, anche all’interno del suo partito, non ha convinto tutti gli aderenti e ne ha espressamente deluso qualcuno. E anche una rinnovata Corte Suprema dovrebbe avere l’autorevolezza per porsi come efficace contrappeso nei confronti di normative lesive dei diritti civili conquistati. La profondità e la rilevanza del mutamento di rotta annunciato da Donald Trump potrebbero altrimenti avere conseguenze considerevoli sia per gli Stati Uniti che per il resto del mondo.