di Claudio Martinelli

La Corte Suprema si è espressa in modo chiaro, la lunga fase di incertezza costituzionale susseguente al referendum Brexit si avvia a conclusione, la procedura di fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europea può trovare avvio.

La Corte doveva dirimere due distinte e spinose questioni. La principale, frutto dell’impugnazione della sentenza “Miller” della High Court of Justice da parte del Secretary of State for Exiting the European Union, riproponeva il tema della titolarità del potere di attivazione dell’articolo 50 del TUE; la seconda, sollevata da diversi references a seguito di una pronuncia della Northern Ireland High Court (impugnata di fronte alla NI Court of Appeal), verteva sulla possibilità per le assemblee devolute di avere una determinante voce in capitolo nella vicenda Brexit.

Come era stato largamente previsto, la Corte Suprema ha respinto entrambe le impugnazioni, a maggioranza di 8 giudici contro 3 la prima, all’unanimità la seconda.

Quanto alla principal issue, è di particolare interesse seguire il percorso argomentativo che porta la Corte Suprema a confermare il necessario ruolo attivo del Parlamento nell’avvio del procedimento, anche per mettere in luce analogie e differenze rispetto a quello seguito dalla HCJ.

Intanto è doveroso notare l’amplissimo respiro di questa pronuncia: come già l’Alta Corte di Londra anche la Corte Suprema non si sottrae alla responsabilità di redigere un vero e proprio trattato di diritto costituzionale che prende le mosse da un’analisi dettagliata della storia giuridica dei rapporti tra Regno Unito e Unione Europea, a partire dai dibattiti parlamentari del 1971 in cui si discuteva dell’ingresso nella Comunità europea. La ragione di questo excursus storico-giuridico è dovuta al fatto che il perno della questione in discussione rimane lo European Community Act del 1972, e in particolare la Section 2 che ridefinisce i rapporti tra l’ordinamento interno e quello comunitario. Ebbene, questa norma «authorises a dynamic process by which, without further primary legislation (and, in some cases, even without any domestic legislation), EU law not only becomes a source of UK law, but actually takes precedence over all domestic sources of UK law, including statutes» [60]. Le fonti comunitarie, dunque, operano come fonte diretta del diritto interno grazie ad una cessione di quote di sovranità dal Parlamento britannico verso le istituzioni comunitarie. Questa costruzione giuridica consente di modificare, in modo automatico, il diritto britannico a seguito di cambiamenti intervenuti nel diritto comunitario, senza coinvolgimento del Parlamento. Tuttavia, nota la Corte, la fuoriuscita dai Trattati europei è un fenomeno completamente diverso: «There is a vital difference between changes in domestic law resulting from variations in the content of EU law arising from new EU legislation, and changes in domestic law resulting from withdrawal by the United Kingdom from the European Union. The former involves changes in EU law, which are then brought into domestic law through section 2 of the 1972 Act. The latter involves a unilateral action by the relevant constitutional bodies which effects a fundamental change in the constitutional arrangements of the United Kingdom» [78].

In sostanza, l’ingresso nelle Comunità europee aveva modificato l’assetto costituzionale dello Stato e, ovviamente, questa decisione fu resa possibile grazie ad una legge del Parlamento. Oggi non si propone una fisiologica modifica del diritto interno in conseguenza di interventi del diritto europeo, bensì un ulteriore cambiamento negli equilibri costituzionali, che pertanto, e coerentemente con i consueti principi del diritto costituzionale, devono vedere il coinvolgimento del Parlamento stesso poiché nessuna norma dell’ordinamento britannico, contenuta nel ECA 1972 o altrove, attribuisce al governo un potere autonomo in materia di modifiche costituzionali.

In questo quadro è possibile riscontrare una differente sfumatura argomentativa rispetto alla sentenza impugnata. Se la HCJ aveva puntato la sua attenzione sulla cancellazione dei diritti derivanti dalla normativa comunitaria, entrati a pieno titolo nell’ordinamento britannico in forza del rinvio operato proprio dalla section 2 dello ECA 1972, la Corte Suprema preferisce ragionare più da “corte dei conflitti”, mettendo al centro del proprio argomentare i rapporti tra i poteri nel contesto dei principi e degli equilibri costituzionali, e coinvolgendo il tema della perdita dei diritti dei cittadini solo in posizione consequenziale.

Inoltre, la Corte Suprema non si limita a ribadire l’esigenza di un intervento parlamentare ma precisa con molta nettezza che è necessario un atto legislativo. Il referendum ha avuto una valenza politica molto forte che ora, però, richiede un’implementazione giuridica poiché la legge del 2015 che lo aveva istituito non aveva provveduto a stabilire le dettagliate conseguenze giuridiche dell’eventuale risultato, lasciandole pertanto ad un successivo atto del Parlamento. Quest’ultimo non può che essere di natura legislativa visto che determina un cambiamento nella legislazione del Paese: «Where, as in this case, implementation of a referendum result requires a change in the law of the land, and statute has not provided for that change, the change in the law must be made in the only way in which the UK constitution permits, namely through Parliamentary legislation» [121]. Di conseguenza, la risoluzione approvata dalla Camera dei Comuni lo scorso 7 dicembre, con cui si impegnava il Governo a notificare l’attivazione dell’art. 50 entro il 31 marzo 2017, è dotata di un mero valore politico e non può fare in alcun modo le veci di uno statute.

Ma l’elemento di maggiore novità contenuto nella sentenza è forse quello relativo alla devolution issue. L’ampiezza delle questioni poste alla Corte Suprema con i references delle Corti di Belfast, nonché l’intervento in giudizio dei Governi di Scozia e Galles a supporto della tesi, sostenuta dai ricorrenti nella causa di fronte all’Alta Corte nord-irlandese, secondo cui prima dell’attivazione dell’articolo 50 sarebbe necessario un intervento legislativo anche delle assemblee devolute (che potrebbero perfino porre un veto in tal senso), hanno caricato il giudizio di fronte alla Corte Suprema di valenze generali rispetto al processo devolutivo e ai poteri delle istituzioni locali.

Sul punto il giudizio negativo della Corte è molto netto. È vero, infatti, che i vari devolution Acts, discussi e votati dal Parlamento in questi ultimi venti anni, sono stati approvati assumendo come punto fermo il fatto che il Regno Unito facesse parte dell’Unione Europea, e tuttavia ciò non significa che queste leggi abbiano disposto il mantenimento del Regno Unito nell’Unione Europea, o abbiano istituito una competenza a decidere in tal senso in capo alle assemblee devolute: «That assumption is consistent with the view that Parliament would determine whether the United Kingdom would remain a member of the European Union» [129]; «Accordingly, the devolved legislatures do not have a parallel legislative competence in relation to withdrawal from the European Union» [130].

Inoltre, la Corte provvede a limitare fortemente il campo d’azione della Sewel Convention, da una parte costatandone la pregnanza solo in tema di decisioni vertenti su materie devolute, dall’altra, su un piano più generale, confinandola nel recinto della valenza politica e negando che possa costituire materia di giudizio di fronte ad una corte di giustizia. Dunque, questa convenzione non può rappresentare un ostacolo giuridico alle determinazioni del Parlamento di Westminster nella materia in discussione.

Quanto alla portata della sentenza rispetto al percorso della Brexit vi è da segnalare che sul piano dei rapporti tra Parlamento e Governo non comporta un cambiamento di prospettiva poiché la sentenza della HCJ aveva già disposto un preventivo intervento del Parlamento.

Semmai l’interrogativo più interessante è se di fronte a questa pronuncia sia possibile parlare di una sconfitta del Governo May; e in quali termini. Certamente l’intera vicenda giudiziaria ha visto soccombere l’intendimento dell’Esecutivo di essere l’unico protagonista delle procedure che presiederanno alla Brexit (tanto che la stessa May ha preferito precorrere i tempi dichiarando che i risultati del negoziato con l’Europa verranno a suo tempo sottoposti al giudizio delle Camere). Tuttavia si può sostenere che se processualmente il Governo risulta certamente soccombente, politicamente non ne esce particolarmente indebolito, sia perché dopo la sentenza della HCJ aveva già messo in conto la necessità di un preventivo passaggio parlamentare, sia perché nel frattempo ha già incassato la ricordata risoluzione dei Comuni, nonché la dichiarazione del leader laburista e di influenti membri della House of Lords favorevoli a non bloccare la Brexit in Parlamento.

Naturalmente tutte queste considerazioni non riescono affatto a dissipare tutte le pesanti incognite che si presenteranno davanti al sistema politico britannico quando la fuoriuscita dall’Unione Europea sarà conclamata, a cominciare dall’apertura di un conflitto permanente con Scozia e Ulster, che potrebbe portare alla celebrazione di un secondo referendum indipendentista scozzese e magari ad una ripresa dei Troubles in Irlanda del Nord.