di Ciro Sbailò - 10 luglio 2017                

L’immagine dell’adolescente, figlio di immigrati nordafricani, che condivide tutto con i suoi coetanei – scuola, passioni sportive, gusti musicali e così via – tranne la cittadinanza, colpisce al cuore. Ma le leggi si fanno (soprattutto) con la testa. E a me pare che se usiamo la testa, l’attuale proposta di legge in discussione al Senato presenti più di un punto poco chiaro.

Per spiegarmi meglio, cercherò qui di schematizzare il contenuto del disegno di legge, mettendo in corsivo le novità.

Se la proposta divenisse legge,

- sarebbe italiano per nascita: a) il figlio di padre o madre cittadini; b) chi è nato in Italia da ignoti o apolidi o non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato a cui questi appartengono; c) chi, nato in Italia, da genitori dei quali almeno uno sia stabilmente residente in Italia, con permesso di soggiorno illimitato;

 - diventerebbe italiano di diritto: a) in maniera automatica, il minore adottato da italiani; b) su richiesta, lo straniero o l’apolide dei quali un ascendente in linea retta fino al secondo grado sia stato cittadino italiano, a una delle seguenti condizioni: aver fatto il servizio militare, aver assunto pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, risedere in Italia da almeno due anni al compimento della maggiore età, aver riseduto in Italia; su richiesta, lo straniero nato in Italia che vi abbia riseduto fino al raggiungimento della maggiore età; chiunque, a prescindere dalla condizione di residenza di genitori, sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso prima dei 12 anni e abbia seguito un regolare corso di studi, conclusosi positivamente; il coniuge di cittadino italiano,a condizione che dopo il matrimonio abbia risieduto due anni Italia, oppure dopo tre anni dal matrimonio se residente all’estero.

- avrebbe la possibilità di diventare italiano (a discrezione del Governo) chi: a) abbia un ascendente in linea retta, entro il secondo grado, che sia stato cittadino italiano o sia nato in Italia, a condizione che risieda in Italia da almeno tra anni; b) lo straniero adottato in Italia, e che risieda in Italia da almeno cinque anni; c) lo straniero che abbia prestato servizio alle dipendenze dello Stato, per almeno cinque anni; d) il cittadino UE che risieda da almeno cinque anni in Italia; e) l’apolide che risieda da almeno cinque anni in Italia; f) lo straniero che risieda da almeno dieci anni in Italia; g) lo straniero che abbia fatto ingresso in Italia prima dei diciotto anni, sia residente da almeno sei e abbia frequentato un ciclo scolastico con esito positivo.

Messa così, saltano subito agli occhi alcune incongruenze della proposta.

La prima riguarda l’acquisto della cittadinanza, ovvero il diritto di diventare cittadino, su richiesta. Qui il legislatore, secondo i proponenti, «riconosce» un diritto in capo ai minori, ma vincola il godimento di questo diritto a un requisito soggettivo, che per definizione (trattandosi di minore) non è nella disponibilità del beneficiario: essere promosso a scuola. A parte il senso di grottesco che si prova, si vede subito che c’è giuridicamente qualcosa che stride con l’ordinamento italiano, se teniamo presente il principio personalistico, per un verso, e il criterio-principio della ragionevolezza, per l’altro. Il legislatore può non riconoscere un diritto, ma una volta che l’ha fatto, non può comportarsi come se il diritto fosse una sua creatura e potesse disciplinarlo come gli pare: nel disciplinarne il godimento, deve attenersi ai principi di cui sopra.

La seconda riguarda la discriminazione tra il minore che vede attribuirsi la cittadinanza di diritto e il minore, invece, che deve convincere le autorità italiane. Infatti chi entra a 13 anni invece che a 12, dopo aver risieduto sei anni in Italia ed essere stato promosso a scuola, può chiedere la cittadinanza, ma non ne ha il diritto. Anche qui: perché? Qual è la differenza tra i 12 e i 13 anni? Le discriminazioni si possono fare, ma devono essere ragionevoli, altrimenti la Corte costituzionale le boccia. Qual è la ratio  di questa discriminazione, visto che tanto il dodicenne quanto il tredicenne sono minori? Non vorrei che si fosse usato come riferimento la disciplina vigente sull’età «del consenso» nei minori. Anche ciò sarebbe davvero grottesco.

Qualcosa mi pare che non torni neanche nella norma che prevede l’attribuzione per nascita della cittadinanza a chi sia figlio di persona stabilmente residente in Italia. Qui ci si rifà evidentemente all’esperienza tedesca. Ma lo straniero figlio di residente stabile in Germania può prendere la cittadinanza tedesca, a condizione che rinunci alla cittadinanza trasmessagli dai genitori (con alcune eccezioni). Mentre in Italia un tale obbligo non esiste (ed è, a mio avviso, molto dubbio che lo si possa introdurre). Peraltro, in Italia la legge già prevede che i residenti stabili possano acquisire la cittadinanza (e trasmetterla, dunque, alla prole). Solo che i dieci anni di residenza attualmente previsti, come condizione per la concessione della cittadinanza, sono effettivamente tanti e diventano spesso 12, 15 e più, per ragioni di tipo amministrativo e burocratico. Forse sarebbe valsa la pena intervenire direttamente su quel termine di dieci e anni e abbassarlo, portandolo a otto, come, appunto, in Germania.

Ora, quando ci si trova di fronte a un ragionamento (e una proposta di legge è un ragionamento) che contiene incongruenze, la ragione va cercata nella premessa (implicita o esplicita che essa sia). Qui la premessa sembrerebbe essere la seguente: la cittadinanza è un diritto fondamentale ed è uno strumento di integrazione.

Ora, che la cittadinanza sia un diritto, mi pare semplicemente errato. Si ha il diritto di avere “una” cittadinanza (infatti, gli apolidi, in questo, godono di un ragionevole privilegio nelle procedure di acquisto della cittadinanza). Ma non di avere “una determinata” cittadinanza, ad esempio, la cittadinanza del posto dove si è deciso di – o si è stati costretti dalle circostanze a – vivere. Quanto alla cittadinanza come strumento di integrazione, si può anche concordare. Ma la stessa integrazione non è un diritto, bensì una scelta politica. Quindi, sarebbe più corretto dire che la cittadinanza è il coronamento di un processo di integrazione, politicamente guidato.

Questo vale anche per i Paesi considerati patria dello ius soli, come gli Stati Uniti e la Francia.

 Negli USA, l’acquisizione della cittadinanza iure soli è un diritto riconosciuto solo a partire dalla fine dell’Ottocento, quando si trattava, nella sostanza, di sanare il paradosso per cui, milioni di persone nate in America e per la cui emancipazione si era sparso sangue in una guerra civile, in molti non potevano godere dei diritti più elementari. Gli indiani, per parte loro, ovvero i nativi americani nel senso più schietto dell’espressione, dovettero aspettare il 1924, per essere considerati pienamente cittadini degli Stati Uniti. In Francia, lo ius soli di oggi non va riferito tanto al lascito repubblicano della Rivoluzione, ma alle esigenze di razionalizzazione anagrafica e fiscale sorte nella Francia contemporanea dell’età industriale,  quando il Paese si popolò di lavoratori stranieri (molti dalle colonie), che però si sottraevano ai loro obblighi nei confronti della Repubblica, perché, appunto, non cittadini. Il problema s’è riproposto, ovviamente, con i processi di decolonizzazione e la nascita della V Repubblica.

In generale, i paesi tradizionalmente più permissivi in materia di cittadinanza sono stati quelli che, a partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale, come la Francia e il Regno Unito, hanno dovuto gestire i flussi migratori dalle ex colonie. Gli orientamenti si sono fatti mano a mano più restrittivi, a seguito dei mutamenti intervenuti nel processo migratori. Con la globalizzazione, infatti, i flussi si moltiplicano e si diffondono, attraversando trasversalmente le frontiere ideali tracciate nel periodo coloniale: le norme previste per i British subject o per chi veniva dall’ex Empire colonial non potevano, evidentemente, applicarsi a tutti gli immigrati, provenienti da ogni parte del mondo. Per questo, con l’andare del tempo, in questi Paesi, tradizionalmente aperti a una visione ampia della disciplina della cittadinanza, gli orientamenti in materia si sono fatti via via più restrittivi, con l’andar del tempo.

Insomma, la base di ogni disciplina dell’immigrazione è costituita da un progetto politico. Qual sarebbe il progetto politico alla base di questa proposta di legge sulla cittadinanza? Si dirà: d’accordo, questa proposta di legge presenta dei vulnera, derivanti forse da poca chiarezza sulle finalità, ma è sempre meglio di niente. Non sono d’accordo. La legge sulla cittadinanza non è una legge qualsiasi. Se, in tale materia, si mette in pista qualcosa che non funziona o che ha all’interno qualche bug destinato a venire fuori quando meno te lo aspetti, allora meglio prendere tempo e chiarirsi le idee.

Si sa ed è inutile girarci intorno: la questione della cittadinanza è, anche in Italia, strettamente connessa alla questione dei flussi migratori e alla conseguente crescita della presenza islamica sul territorio nazionale. Si sta ponendo, a tale riguardo, un problema generale di compatibilità tra culture (innanzitutto giuridiche), che non si pone con altri gruppi etnico-culturali, pur consistenti, come ad esempio quello dei cattolici ortodossi. Nel medesimo contesto problematico va collocato, a mio avviso, anche il problema delle “Intese” con le comunità islamiche (anche qui, il problema è politico: non esiste un diritto all’intesa, come opportunamente ribadito la Corte costituzionale nel 2016). Probabilmente la politica italiana è alla ricerca, forse un po’ affannosa, di un approccio olistico a tale intreccio di questioni. In questa chiave a me pare di leggere, ad esempio, i decreti su immigrazione e sicurezza, il disegno di legge sul jihad, le iniziative governative sul patto per l’Islam italiano e sul radicalismo islamico. Ma se così,  a maggior ragione sarebbe utile che si facesse un po’ di chiarezza sulla finalità politica interna al disegno di legge sulla cittadinanza.