di Ciro Sbailò - 25 ottobre 2017

 

L’implacabile disamina del Procuratore

             La circolare del Capo della Procura di Roma sull’Osservanza delle disposizioni relative alle notizie di reato (n. 3225/17), ampiamente commentata sulla stampa (v., in data 17 ottobre 2017, le analitiche ricostruzioni di Donatella Stasio, su Questione giustizia, e di Giovanni Bianconi, sul Corriere della Sera) potrebbe costituire un’occasione per (ri)aprire il dibattito sull’obbligatorietà dell’azione penale.

             La circolare prende spunto dalla recente riforma del diritto penale (l. 103/2017), che prevede, tra le altre cose, la responsabilità in capo al procuratore della Repubblica «di assicurare l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione della notizia di reato» (art. 1, commi 75 e 76). A tale proposito, nella circolare si sottolinea come l’attività che compete all’ufficio del p.m. non sia meramente ricognitiva, ma necessariamente valutativa, sia per quel che riguarda i presupposti per l’iscrizione, sia per quel che riguarda il tipo di iscrizione (atti che non costituiscono notizie di reato, notizie di reato a carico di persone ignote o a carico di persone note). Nel documento si insiste molto sull’attività valutativa del p.m., facendo riferimento al «peculiare contesto della Procura di Roma», oppressa da una «mole di atti veramente ingente». Su queste basi, la circolare mette in risalto l’eteorgenesi dei fini cui è stata soggetta la disposizione dell’iscrizione obbligatoria e tempestiva nel registro degli indagati. La ratio dell’iscrizione, infatti, è di tipo garantista: chi è indagato deve sapere di esserlo. Peraltro, «la condizione di indagato è connotata da aspetti innegabilmente negativi». Dalla sua formalizzazione, infatti, «si dispiegano, per la persona indagata, effetti pregiudizievoli, sia sotto il profilo professionale sia in termini di reputazione». La puntuale analisi svolta dal procuratore mette in risalto il paradosso di un istituto nato per garantire i diritti della persona e trasformatosi in uno strumento di gogna mediatica. Con effetti deleteri anche sullo svolgimento dell’azione penale. La lettura meccanica della norma che impone l’immediata iscrizione di colui al quale il fatto è attribuito «finisce per attribuire impropriamente alla Polizia Giudiziaria – o, addirittura, al privato denunciante – il potere di disporre in ordine alle iscrizioni a mod. 21, potere che, viceversa, non può che essere esclusivo del pubblico ministero ed al cui ponderato esercizio questo ufficio non intende sottrarsi».

             Nell’implacabile disamina dell’eterogenesi dei fini della notizia di reato si annidano due paradossi. Il primo è che alla luce di questa circolare, in futuro, chi si troverà ad essere iscritto nel registro degli indagati non potrà più difendersi dicendo che si tratta di un «atto dovuto», perché l’iscrizione sarà stata evidentemente preceduta da un’attenta e ponderata valutazione del caso. L’impatto mediatico dell’iscrizione, dunque, sarà più forte rispetto al passato, con effetti potenzialmente più afflittivi, a dispetto del principio della presunzione di innocenza. Il secondo paradosso consiste nel fatto che la circolare potrebbe contribuire a legittimare la prassi della ritardata iscrizione, finalizzata ad allungare artificialmente – e in modo improprio – i tempi di indagine. Trattasi di questione annosa. Logica vorrebbe che la decorrenza dei termini dell’indagine retrocedesse, quando l’iscrizione sia stata omessa o indebitamente ritardata. Ma l’”individuazione”, in senso giuridico, del ritardo o dell’omissione comporta una sorta di responsabilizzazione del pubblico ministero rispetto alle proprie scelte. Il che è in contrasto con il dettato costituzionale. Ove il p. m. negligente venisse sanzionato (eventualità remotissima), ciò non avrebbe incidenza sugli effetti del suo operato e suonerebbe, per certi versi, come una conferma dello splendido isolamento in cui egli opera. Né l’introduzione della “responsabilità civile” dei magistrati potrebbe, a  nostro avviso, risolvere il problema della negligenza. Essa esercita una indiscriminata compressione nei confronti dell’autonomia di tutti i magistrati (mentre il giudice terzo, per definizione, dovrebbe essere sottratto a ogni tipo di soggezione), rinforzando, indirettamente, il principio della totale irresponsabilità “politica” (in senso lato) del pubblico ministero.

 

Perché il tema interessa oggi i giuscomparatisti

             L’interesse del diritto pubblico comparato nei confronti di tale questione nasce dal fatto che i paradossi di cui sopra potrebbero essere inquadrati come parte di un più ampio paradosso: il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, voluto dai padri costituenti come baluardo nei confronti della politicizzazione della giustizia e quindi come garanzia per il cittadino, si rivela una fonte di arbitrio e, in ultima analisi, un elemento di irrazionalità nel sistema. Di fatto, il p.m. è nelle condizioni di sviluppare una propria criminal policy, al riparo del principio dell’obbligatorietà, quindi al di fuori di ogni ragionevole  responsabilizzazione. Che siano pochi i p.m. ad abusare di questa discrezionalità di fatto (ma qui ci sono opinioni e statistiche divergenti) non rileva granché, se si considera la questione alla luce della razionalità imposta a ogni comunità politica occidentale dai processi di integrazione “sistemica” tra economie e ordinamenti. Insomma, può essere difficile la vita, oggi, sullo scacchiere internazionale, per un sistema nel quale un pubblico ministero può far cadere un governo o mandare gambe all’aria un’azienda, avviando, con un atto pienamente discrezionale ma non imputabile (e, dunque, neanche preventivabile nella costruzione di un processo decisionale), un’azione penale, che magari si rivela dopo un certo tempo destituita di fondamento. 

 

Inquadrare l’anomalia italiana

             Esistono intere pareti di studi sul tema, che prendono le mosse anche dai vari richiami di carattere sovranazionale (v., ad esempio, il Consiglio d’Europa: R (87) 18 e r  (2000) 19)). I magistrati, a loro volta, soprattutto ai livelli apicali, sono ben consapevoli della «ineffettività concreta» del principio di obbligatorietà dell’azione penale, come dimostrano alcune circolari che hanno fatto epoca (v., ad esempio, Zagrebelsky 1990 e Maddalena 2006). Quanto alla giurisprudenza costituzionale, l’obbligatorietà, più che come un principio, tende a essere ricostruita quale strumento di garanzia, rispetto ai principi (questi sì) di uguaglianza e legalità (v. 88/1991). Il che, a ben vedere, potrebbe aprire la strada a una ricostruzione della stessa indipendenza «istituzionale» del pubblico ministero in termini totalmente funzionali e non assiologici. In ultima analisi, in un’ipotetica revisione del Titolo IV della Costituzione (ovvio che non si potrebbe toccare l’obbligatorietà senza ritoccare anche altri articoli: si pensi, per fare solo un esempio, alla composizione del Consiglio superiore della Magistratura), il principio dell’obbligatorietà potrebbe cedere di fronte a un rafforzamento della terzietà giudice e a una responsabilizzazione politica dell’esercizio dell’azione penale.

             Il tema, molto dibattuto in dottrina e in giurisprudenza, non gode di molta popolarità nel dibattito pubblico. È facile capire perché: da “mani pulite” in poi, è impossibile sollevare la questione senza inserirsi nella polemica sulla “magistratura politicizzata” e sul tormentato rapporto tra politica  giurisdizione (l’unico politico di rilievo a esporsi con continuità su questo fronte è stato Marco Pannella, il quale insisteva proprio sull’irrazionalità sistemica del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale).

             L’anomalia italiana, peraltro, emerge con chiarezza dalla comparazione giuridica.

             Se si guarda alle esperienze straniere (non solo a quelle di common law, ma anche a quelle dei “cugini” francofoni), emergono due dati. In primo luogo, si nota una simmetria tra il grado di separazione tra la funzione dell’accusa e la funzione del giudizio, da una parte, e il grado di discrezionalità dell’azione penale, dall’altro. In secondo luogo si evince come, anche nei paesi di forte impianto romanistico, la criminal policy metta capo al vertice dell'Esecutivo, poiché è quest'ultimo a dover rispondere al Parlamento. In altre parole: l’Italia rappresenta un caso particolare, dove il pubblico ministero, quanto a carriera e a garanzie è del tutto assimilabile al giudice, e dove la criminal policy  è completamente  sottratta alla responsabilità dell’Esecutivo ed è dominio esclusivo del pubblico ministero.       

             L’anomalia si fa più visibile alla luce della progressiva espansione del potere giudiziario, che caratterizza la vita pubblica occidentale nel XXI secolo.

             Com’è noto, il crescente peso della magistratura nella vita pubblica è un fenomeno comune a tutte le democrazie contemporanee e ha cause diverse, in gran parte riconducibile ai mutamenti istituzionali connessi ai processi di globalizzazione. A voler essere estremamente sintetici, si può far riferimento alla crescente necessità di risposte immediate ed efficaci ai nuovi diritti civili e ai nuovi interessi sociali, anche in bilanciamento del crescente ruolo degli Esecutivi e della corrispondente compressione del raggio d’azione dei corpi legislativi. Ciò comporta, tra l’altro, due conseguenze sul piano del rapporto tra i cittadini e il sistema dei pubblici poteri. Da un lato, il potere giudiziario è individuato, insieme alle autonomie territoriali, come un baluardo contro l’espansionismo dei governi. Dall’altro, la magistratura si presenta come un’istituzione in grado di rispondere in maniera più efficiente ai nuovi diritti e ai nuovi interessi presenti nella società contemporanea (una sentenza che risolve un problema, ad esempio, di natura bioetica o di natura economica, arriva ben prima che il Parlamento riesca a impostare la questione ed ha anche il vantaggio di produrre effetti immediati). Denunciare, di fronte a ciò, l’abbandono della funzione meramente “esecutoria” del giudice o la “politicizzazione” della magistratura non serve a capire l’anomalia italiana, che riguarda non l’espansione del potere giudiziario, bensì la piattaforma istituzionale su cui questo fenomeno va a collocarsi. Tale piattaforma, infatti, non è “attrezzata” per affrontare:  il “fisiologico” fenomeno dell’espansione del potere giudiziario, in forza dell’obbligatorietà dell’azione penale, che provoca una “patologica” ipertrofia del ruolo pubblico ministero, sganciata da ogni responsabilità.

             L’anomalia è venuta drammaticamente alla luce dopo l’11 settembre 2001, quando nell’emisfero occidentale s’è avvertita con maggiore forza l'esigenza di rafforzare i poteri dell'Esecutivo in materia di criminal policy, in quanto, come le indagini del Congresso americano hanno dimostrato, la confusione tra il piano giudiziario e quello della repressione indebolisce lo Stato nei confronti della “sintassi” operativa delle nuove minacce terroristiche. In Italia, viceversa, l’esperienza delle nuove minacce alla sicurezza hanno portato i pubblici ministeri maggiormente impegnati su questo fronte a chiedere nuovi strumenti per “combattere” il terrorismo (compito che spetterebbe all’Esecutivo, responsabile della sicurezza dei cittadini) confermando in questo modo, la loro consapevolezza di essere i veri titolari della criminal policy. Ma tale anomalia, come accennato, diventa sempre più evidente con il progredire dei processi di integrazione economica, che impongono una razionalizzazione sistemica dello spazio pubblico, tanto in chiave sovranazionale quanto nazionale, tanto in chiave interstatuale quanto intrastatuale.

            

Riaprire il capitolo sulle riforme costituzionali

             Il diritto pubblico comparato, oltre che finalità conoscitive, ha anche funzioni pratiche. Tra queste, spiccano la comprensione del proprio ordinamento attraverso lo studio degli altri ordinamenti e l’individuazione di percorsi di integrazione giuridica, tra ordinamenti diversi. L’insuccesso della riforma costituzionale proposta da Matteo Renzi non può segnare la fine di ogni proposta di riforma costituzionale nel medio termine: gran parte degli studiosi in disaccordo con quella riforma (chi scrive è tra questi) è convinta della necessità di rivedere in più punti la Carta fondamentale, per rendere il sistema Paese più stabile ed efficiente. Ci si chiede, dunque, se i tempi non siano maturi per mettere in discussione il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, non solo in nome dei sacrosanti principi garantisti, ma, tenendo conto dei processi di integrazione cui sopra si accennava, in nome della razionalità del sistema dei pubblici poteri.