di Giulia Caravale

Con un efficace gioco di parole uno degli slogan utilizzati durante la campagna elettorale dal partito laburista è stato “Let’s make june the end of May”. Le elezioni anticipate della Camera dei Comuni dell’8 giugno scorso non hanno determinato la “end of May”, ma hanno comunque – ancora una volta – smentito i sondaggi e sorpreso gli osservatori politici.

Come noto, diversi erano stati i motivi per cui Theresa May aveva deciso, il 18 aprile scorso, di sciogliere la Camera dei Comuni a soli due anni dall’inizio della legislatura e poche settimane dopo aver notificato la volontà del Regno Unito di uscire dall’Unione europea. All’epoca i sondaggi garantivano al partito di governo un distacco di circa 20 punti percentuali rispetto agli avversari laburisti, vantaggio che si sarebbe potuto tradurre – sempre secondo i sondaggi - in una maggioranza di 130 seggi in Parlamento. Un ghiotto bottino, se paragonato ai 17 seggi di maggioranza su cui poteva allora contare l’esecutivo. La May avrebbe così potuto annientare le opposizioni in Parlamento ed affrontare, indisturbata, i negoziati per la Brexit. Inoltre, le elezioni successive sarebbero state rinviate al 2022, momento in cui il processo di uscita dall’Unione dovrebbe essere definitivamente concluso e anche metabolizzato dai cittadini.

Uno dei mantra della campagna elettorale della Premier – che non ha mancato di suscitare polemiche e satire - è stato proprio la richiesta di una “stronger leadership” per dar vita ad uno “strong and stable government” in grado di traghettare con fermezza e senza esitazione il Regno fuori dall’Unione.

Ma se questo era il suo obiettivo, la May certamente non lo ha centrato. Le si possono imputare numerosi errori a cominciare dall’azzardo di sciogliere anticipatamente i Comuni sulla base di una scommessa. Inoltre i limiti caratteriali della sua leadership si sono manifestati durante la campagna elettorale, in cui è apparsa fredda, impacciata, distante ed incerta. La Premier ha ripetuto slogan e frasi fatte, si è sottratta al confronto diretto con i suoi avversari, peraltro più volte sottovalutati. Ma non è stata solo una questione di immagine: la May e il partito conservatore sono stati criticati, ad esempio, per il repentino cambio di posizione sulla politica sociale. Il programma dei conservatori, forse proprio perché sicuri della vittoria, conteneva aspetti certamente di sicuro impatto negativo nella società, tra cui la c.d. “dementia tax”, una riforma che prevedeva tagli al finanziamento per la cura di malattie degenerative, come l’Alzheimer. La proposta, subito dopo le critiche, è stata ritirata in maniera ritenuta maldestra, tanto è che da quel momento gli elettori hanno iniziato a reagire e i sondaggi a segnare una rimonta del partito laburista.

Anche in tema di Brexit la May ha chiesto durante la campagna una “stronger leadership” per guidare il Paese fuori dall’Europa, senza tuttavia riuscire mai a chiarire del tutto i suoi obiettivi. Gli attacchi terroristici di Manchester e Londra, infine, hanno mostrato gli errori delle decisioni politiche della May, che è stata facile bersaglio per i tagli alla sicurezza applicati nei sei anni da lei trascorsi alla guida dell’Home Office[1].

Dall’altro lato, il suo avversario Jeremy Corbyn, ad aprile considerato improbabile candidato Premier anche da molti esponenti del suo stesso partito, si ė rivelato invece più rilassato, coraggioso, empatico e sincero rispetto all’algida May ed è riuscito a conquistare il cuore anche dell’elettorato più giovane.

Al di là delle considerazioni sulla personalità dei due principali leaders e sulla inaffidabilità dei sondaggi nel Regno Unito, appare possibile proporre alcune brevi riflessioni in attesa di sapere cosa il governo inserirà nel prossimo Queen’s Speech, che chiarirà i compromessi accettati dalla Premier.

Il risultato di un nuovo hung parliament dopo solo due anni dalla precedente “legislatura appesa” mostra che la forma di governo del Regno Unito, ancora una volta, si è discostata dal tradizionale modello Westminster, sotto il profilo dell’assenza di un governo di maggioranza. Si deve comunque notare che le elezioni hanno mostrato, invece, il ritorno al sostanziale bipartitismo, non solo in termini di seggi, ma anche sotto il profilo dei voti espressi: la somma dei voti ottenuti dai due principali partiti è, infatti, stata superiore all’80% (82,4%), risultato che appare ancora più interessante se confrontato con quelli del passato, dato che dalla metà degli anni ‘70 a oggi, con l’unica eccezione del 1979, la somma dei voti dei due partiti non era riuscita mai a raggiungere questo livello.

Avevo già osservato, proprio nelle pagine di questo forum, che l’obiettivo che la May voleva raggiungere con lo scioglimento anticipato era quello di far “rientrare nei ranghi il ruolo del Parlamento”, affermando la sua strong leadership. Una proposta che avevo giudicato non adeguata, dato che, per affrontare la transizione, il Regno Unito avrebbe avuto bisogno piuttosto di uno strong Parliament. Del resto la bocciatura della lettura “presidenziale” dei poteri del Premier e del governo appare a fondamento della sentenza Miller, con la quale la Corte suprema, nel gennaio scorso, aveva ribadito la necessità dell’intervento del Parlamento per la notifica della decisione di uscire dall’Europa, dal momento che il processo sarebbe stato irreversibile e avrebbe condizionato i diritti dei cittadini. La sentenza riguardava l’approvazione da parte del Parlamento di una legge, in particolare l’European Union (Notification of Withdrawal) Act 2017, l’asciutto testo che ha autorizzato il governo a notificare il 29 marzo la decisione di recedere dall’Unione. Ma la sua ratio va certamente al di là del mero oggetto del giudizio: è possibile leggere tra le righe della sentenza della Corte suprema, infatti, il principio generale secondo il quale nel processo della Brexit il governo non può agire da solo e ha bisogno dell’essenziale ruolo del Parlamento.

La nuova Camera dei Comuni, ancorché “appesa”, potrebbe svolgere - forse meglio della precedente proprio per questa caratteristica - il compito di accompagnare il Paese nel cammino fuori dall’Europa. L’esperienza della legislatura 2010-2015 aveva, infatti, visto il rafforzamento del ruolo del Parlamento come centro decisionale ed evidenziato la sua autonomia rispetto alle decisioni del governo. Appare senza dubbio condivisibile quanto sostenuto da Albert Weale secondo cui l’hung parliament rappresenta un bene per il “parliamentary government”, soprattutto nel momento in cui il Paese deve affrontare una delle svolte politiche ed economiche più rilevanti degli ultimi decenni.  Un Parlamento in cui i diversi provvedimenti saranno approvati “on the merits of the arguments as revealed in parliamentary debate” [2]. Il nuovo governo May sarà costretto a negoziare con gli altri partiti – già William Hague ha proposto di istituire una commissione interpartitica sulla Brexit, proposta accolta con favore dalla First Minister scozzese Sturgeon - e dovrà quindi mediare con le opposizioni sia interne che esterne all’esecutivo. Ed inoltre l’esecutivo non potrà ignorare il parere della Camera dei Lords, che – come noto – non può essere dato mai per scontato[3].

Il nuovo Parlamento appare dunque chiamato a svolgere un ruolo essenziale nella difficile attuazione della Brexit. Tanto più che il progetto governativo di Great Repeal bill, che delegava ai ministri un eccessivo potere normativo senza garantire un controllo efficace da parte dei comitati parlamentari, era stato già decisamente criticato dal Delegated Powers and Regulatory Reform Committee della Camera dei Lords nel rapporto pubblicato il 27 aprile scorso[4]. E proprio sul delicato e importante compito che i comitati parlamentari saranno chiamati a svolgere si è soffermato anche Peter Leyland durante l’incontro tenutosi a Londra il 12 giugno presso l'Istituto italiano di Cultura, in occasione dell’annuale Colloquio costituzionalistico sul tema Facing Up to Brexit: UK and Italian Constitutional Perspectives. Secondo Leyland, infatti, le elezioni dell’8 giugno porteranno alla nascita di nuovi general e select committees formati rispettando la composizione dei Comuni e quindi, non dominati dal partito di maggioranza; una composizione dunque che potrebbe garantire un controllo più penetrante sulla politica governativa.

I cittadini del Regno che proprio un anno fa hanno deciso di votare per il Leave, questa volta hanno respinto la richiesta di conferire una strong leadership alla May e, forse, hanno allontanato del tutto la prospettiva di attuazione di una “hard Brexit”. Inoltre l’indispensabile sostegno che la May dovrà ottenere dal partito nord irlandese Dup costringerà l’esecutivo ad essere più sensibile nei confronti delle richieste delle amministrazioni devolute. In particolare il Dup ha necessità di trovare da un canto un accordo con il Sinn Féin per superare la crisi di governo interna al Nord Irlanda, entro la deadline fissata al prossimo 29 giugno, dall’altro una soluzione al problema della frontiera interna all’isola, soluzione che appare difficilmente compatibile con il progetto di “hard Brexit” voluto dalla May. La Premier, poi, dovrà tenere conto anche del sostegno dei deputati conservatori eletti nelle circoscrizioni scozzesi. Il partito conservatore in Scozia ha avuto un insolito successo, insolito non solo se confrontato con i risultati ottenuti nel resto del Paese, ma soprattutto con quelli delle precedenti elezioni, tanto che i seggi dei conservatori in Scozia sono passati da 1 a 13. Un risultato che, anche alla luce della mancata conferma da parte dello Scottish National Party di 21 dei 56 precedenti seggi, apre nuovi scenari: se da un canto elimina, almeno per il breve periodo, lo spettro di un altro referendum sull’indipendenza, dall’altro potrebbe indurre la May a rimodulare i suoi progetti, come peraltro caldeggiato in questi giorni da Ruth Davidson, la leader del partito conservatore scozzese.

L’8 giugno 2017 non ha segnato, almeno per adesso, la “end of May”, ma forse - it Maybe -  a new May.

 

 

[1] Gli errori della campagna elettorale hanno portato per ora solo alle dimissioni dei due capi dello staff della Premier Nick Timothy e Fiona Hill.

[2] A. Weale, Why democrats should welcome a hung parliament, Constitution Unit blog, 12 june 2017

[3] M. Russel, Managing the new parliament: some chalenges for Theresa May’s minority government, Constitution Unit blog, 9 june 2017

[4] House of Lords Delegated Powers and Regulatory Reform Committee, Special Report: Second Submission to the House of Commons Procedure Committee on the delegated powers in the “Great Repeal Bill”, HL paper 164