di Angela Di Gregorio - 17 settembre 2018 

1. Come entusiasticamente sottolineato sia dai media che dalla dottrina, il voto del Parlamento europeo sul cd. rapporto Sargentini dello scorso 12 settembre riveste un valore storico, benché rischi di rimanere simbolico. Pur non essendo la prima volta che il Parlamento europeo sollecita e sostiene misure più incisive nei confronti dell’Ungheria (e della Polonia), la chiara e trasversale presa di distanza dai comportamenti della maggioranza politica ultra-conservatrice al governo in Ungheria rappresenta un evento quasi epocale.

La Risoluzione del Parlamento europeo, che rivolge al Consiglio la richiesta di attivazione dell’art. 7.1 del TUE, elenca analiticamente (seppure con alcune imprecisioni e lacune) le varie tappe della degenerazione illiberale ungherese a partire dal 2011 che giustificano il pericolo di una violazione sistematica dei valori dell’Unione come sintetizzati nell’art. 2 del TUE. In realtà, le trasformazioni costituzionali hanno preso avvio prima dell’adozione della Legge Fondamentale vigente, poco dopo la vittoria schiacciante della coalizione diretta dal Fidesz nell’aprile 2010. All’elenco dei provvedimenti ungheresi, nell’allegato alla Risoluzione sono affiancate le reazioni delle istituzioni europee ed internazionali, comprese le sentenze di condanna della Corte di giustizia dell’Unione europea e della Corte europea dei diritti dell’uomo, passando per gli interventi della Commissione di Venezia, della Commissione europea ed i precedenti ripetuti interventi dello stesso Parlamento europeo, l’istituzione della UE che più si è battuta per la tutela dei valori fondamentali dell’Unione.

L’osservazione delle tappe incrementali della degenerazione illiberale, che ha piuttosto disorientato le istituzioni europee prima di produrre qualche reazione organizzata, mostra un piano chiaro e definito con sufficiente precisione. Nonostante l’accoglimento di alcuni dei suggerimenti della Commissione di Venezia e delle prescrizioni della Corte di Giustizia, la realtà politica del corso ultra-conservatore ungherese si basa su di un programma esplicito.

Orbán ha una storia personale che affonda paradossalmente le sue radici nelle idee liberali e progressiste dei movimenti di contestazione al comunismo della seconda metà degli anni ‘80. È stato tra i protagonisti della transizione di regime e già alla guida del governo tra 1998 e 2002 con un programma di impostazione piuttosto liberale ed europeista. Il percorso politico del premier e della forza politica di cui è a capo ha subito una decisa virata a destra negli anni successivi, vissuti all’opposizione rispetto ai governi a guida socialista, parallelamente all’ascesa di un’altra forza politica ancor più estremista nello stesso fronte conservatore, ossia Jobbik (dichiaratamente antieuropeista, antisemita oltre che populista, ma mai alleato col Fidesz).

Il manifesto ideologico del nuovo corso politico di Orbán può essere rinvenuto in un discorso del 26 luglio 2014 pronunciato a Tusnádfürdő, nella Romania “ungherese”, al Bálványos Summer Free University and Student Camp, un forum intellettuale annuale nato nel 1990 con l’intento di promuovere la cooperazione transfrontaliera. Il discorso in questione fu pronunciato poco dopo la seconda vittoria elettorale consecutiva del Fidesz ed in esso il premier giustifica minuziosamente il suo  revirement politico. In particolare, Orbán considera come un catalizzatore di cambiamenti mondiali il 2008, l’anno della crisi finanziaria “occidentale”, che egli paragona addirittura ai tre eventi storici del Novecento, vale a dire le due guerre mondiali e la caduta del comunismo. Gli sconvolgimenti economici iniziati in tale anno avrebbero mostrato che il modello liberista, che ha pervaso il mondo attraverso i percorsi della globalizzazione a partire dal prototipo statunitense, produce una serie di disvalori come corruzione, sesso e violenza, tutte cose che discreditano la “modernizzazione americana”. La società post-2008 sarebbe sempre meno capitalista e sempre più feudale rischiando di far scomparire la classe media. L’unico modo per rompere questa spirale perversa è costruire uno Stato nuovo capace di rendere grande e competitiva sulla scena internazionale la nazione di cui esso è l’esponente. A tal fine bisogna prendere esempio da quei sistemi che non sono occidentali, non sono democrazie liberali, e forse nemmeno democrazie, ma che sono riusciti a rendere grandi le loro nazioni, come Singapore, Cina, India, Russia e Turchia. Dunque, come afferma Orban, “nel momento in cui rompiamo con i dogmi e le ideologie adottate dall’Occidente e mantenendoci indipendenti da esse, tentiamo di trovare la forma dell’organizzazione della comunità, il nuovo Stato ungherese, capace di rendere la nostra comunità competitiva nella grande competizione globale per i decenni a venire…a tal fine bisogna fare affermazioni che il mondo liberale considera come blasfemia. Dobbiamo dichiarare che una democrazia non necessariamente deve essere liberale. Anche se uno Stato non è liberale, può ancora essere una democrazia”.

Secondo Orbán, finora ci sono state tre forme di organizzazione statale: lo Stato nazione, lo Stato liberale e lo Stato sociale (non menziona lo Stato socialista). La democrazia liberale non è stata capace di infondere sicurezza all’ungherese medio, di servire i suoi veri interessi nazionali. I governi in carica finora hanno addirittura contestato l’esistenza degli “interessi nazionali ungheresi” e degli ungheresi sparsi per il mondo. Non hanno accettato l’idea che questi ungheresi sono parte della nazione ungherese (si riferisce, visto anche il luogo del discorso, alla “comunità ungherese del bacino dei Carpazi”). I governi liberali non sono stati in grado di proteggere gli interessi economici degli ungheresi, di salvarli dai debiti contratti con le banche, di proteggere i beni pubblici. La vittoria del Fidesz alle elezioni del 2010 e del 2014 indicherebbe che gli ungheresi vogliono cambiare rotta per creare uno Stato più competitivo, una nuova forma di Stato che “dopo lo Stato liberale e l’era della liberal-democrazia e nel rispetto ovviamente dei valori della cristianità, dei diritti e libertà umani, possa nuovamente rendere la comunità ungherese competitiva...la nazione ungherese non è semplicemente un gruppo di individui ma una comunità che deve essere organizzata, rafforzata e di fatto costruita. Ed è in questo senso che il nuovo Stato che stiamo costruendo in Ungheria è uno Stato illiberale (illiberális állam), uno Stato non-liberale. Esso non rigetta valori fondamentali del liberalismo come la libertà, e ne potrei elencare qualche altro, ma non fa di questa ideologia l’elemento centrale dell’organizzazione statale ..viceversa include un approccio diverso, speciale, nazionale”.

Da tale discorso si deduce che i valori alla base della nuova forma di Stato sono quelli della famiglia tradizionale, della nazione intesa come comunità etnica che trascende i confini nazionali (il riferimento è agli ungheresi della diaspora prodotta dal trauma del Trianon). Alcuni concetti sono espressi in maniera comprensibile (la reazione alla crisi economica mondiale e il recupero della dignità ed autosufficienza economica degli ungheresi: ma l’idea di una autosufficienza economica nel mondo globale è pura utopia) mentre altri sono manifestamente aberranti e dalla chiara matrice estremista. Tra questi, l’ostilità nei confronti delle ong, che si ritengono dirette da non ben precisate entità straniere al fine di influenzare il dibattito pubblico interno su di una serie di questioni. Opportunisticamente l’intenzione di creare una nuova forma di Stato non viene vista come incompatibile con l’appartenenza all’UE, benché se ne ravvisino gli inevitabili motivi di frizione. Oltre a quelli già verificatisi fino a quel momento, Orbán si sofferma su di una questione dai contorni oscuri ma fortemente demagogici: sono chiamati a decidere della concessione di fondi di sviluppo economico e sociale all’Ungheria funzionari europei pagati molto di più dei cittadini ungheresi. Ciò viene considerato inammissibile.

 

2. Dal punto di vista costituzionale i provvedimenti ungheresi fonte di preoccupazione nel consesso europeo sono innumerevoli a cominciare dal nuovo testo costituzionale di cui, oltre ai contenuti conservatori, si contestano le modalità poco partecipate di adozione. Come i polacchi, anche i conservatori ungheresi hanno beneficiato di alcuni difetti del quadro costituzionale e legislativo precedente che sono riusciti a strumentalizzare ad arte, prima ancora di stravolgerlo. Nel caso ungherese si tratta di una rigidità costituzionale “contenuta” (2/3 dei componenti del solo parlamento monocamerale per l’approvazione di una nuova costituzione; iniziativa riservata anche ad un solo membro del parlamento: ciò ha consentito di instaurare un processo costituente permanente come si vede dalle ben sette revisioni costituzionali intervenute dopo il 2011, l’ultima approvata il 20 giugno scorso) e di una legge elettorale fortemente premiante nei confronti della prima forza politica, che il Fidesz ha poi provveduto a manipolare ad arte.

Nel disegno riformatore utile al raggiungimento dello scopo (la costruzione di una società nazionalista, omogenea ed autoreferenziale) rientra uno schema piuttosto semplice, poi utilmente imitato dai polacchi del PiS. Ossia: neutralizzazione/controllo e ridimensionamento della Corte costituzionale (il principale ostacolo sul percorso di adozione di pacchetti legislativi “riformisti”, data l’ampiezza dell’accesso a tale organo e la sua autorevolezza), sostituzione del corpo giudiziario tramite pensionamenti anticipati e riformulazione delle regole per l’accesso alle cariche apicali dei tribunali e per l’autogoverno della magistratura (per bloccare le inchieste sulla corruzione che lambivano esponenti politici di maggioranza; per evitare una traslazione in via di fatto dinanzi al giudici ordinari del controllo di costituzionalità), maggiore controllo sulla procura (per motivazioni analoghe), controllo dell’accesso alla rappresentanza (riformando la legge elettorale in profili di contorno utili a favorire ulteriormente il partito di maggioranza, agendo sulle regole di finanziamento dei partiti, la propaganda elettorale, il controllo sulle elezioni nonché adottando tecniche di gerrymandering) e strumentalizzazione di altre forme di espressione del consenso popolare (organizzando vari tipi di consultazioni diverse dai referendum non disciplinate dalla Costituzione e dai toni fortemente populisti). A ciò si sono affiancate le limitazioni di una serie di libertà fondamentali e dei diritti delle minoranze e dei migranti che sono accuratamente ricordate nel rapporto Sargentini ed in quelli che lo hanno preceduto (in particolare le libertà di associazione, dei media, religiosa, accademica, di espressione, i diritti delle donne, dei senzatetto, di privacy, etc.). Si sta operando, seguendo fedelmente il programma, una trasformazione non solo delle istituzioni e della forma di Stato ma della stessa società civile ungherese, blandita e accarezzata dalla martellante retorica nazionalista del nemico esterno coi suoi pericolosi cavalli di Troia. Tra questi nemici figura un ungherese emigrato, ossia György Soros, che non rappresenta tuttavia il mito dell’ungherese della diaspora, il quale è invece dislocato suo malgrado nei paesi vicini, vecchia patria imperiale ungherese amputata dopo il disfacimento dell’Austria-Ungheria.  

L’idiosincrasia nei confronti degli strumenti di controllo e contrappeso contro-maggioritari della democrazia costituzionale pure emergevano, anche se non esplicitamente, nel discorso del 2014 dove Orbán stigmatizzava duramente la possibilità che un Presidente elettivo come quello americano potesse essere minacciato di impeachment dal parlamento e di conseguenza considerava inammissibile che un tribunale potesse fermare il governo ungherese liberamente eletto. Da questo punto di vista il modello è diverso da quello russo, che pure è stato imitato per altri contenuti dello “schema degenerativo” (in particolare la restrizione della libertà di riunione e la legislazione “sugli agenti stranieri”). Infatti, nel caso russo, la Corte costituzionale ha vissuto quasi sempre una esistenza limitata essendo poi progressivamente sottoposta a misure di contenimento fino ad arrivarsi, in tempi recenti, a teorizzare addirittura la sua eliminazione. La riduzione dei poteri della Corte costituzionale ungherese non è invece in se significativa (obiettivamente questa prima del 2010 appariva super-dotata) ma lo sono piuttosto le modalità di selezione dei giudici e del presidente, l’annullamento-sterilizzazione della giurisprudenza precedente all’entrata in vigore della LF ed alcune altre innovazioni negative che ne hanno prodotto la “normalizzazione”.

Nonostante l’accanimento contro i giudici e le altre istituzioni di controllo, comprese una serie di authorities, ciò che emerge nel caso ungherese comunque non è solo la violazione della rule of law ma anche delle altre due componenti dei criteri di Copenhagen, richiesti per l’accesso all’UE, ossia democrazia e diritti umani (più diritti delle minoranze), anche se il discorso dottrinale e politico si è concentrato prevalentemente sul primo aspetto, oltre che sulla questione dell’accoglimento dei migranti. Come si evince dal rapporto Sargentini, si tratta di interventi a tutto campo che vanno in una direzione che non è neppure quella di una democrazia conservatrice, come Orbán sostiene, bensì a stento di una democrazia elettorale. Infatti, il Fidesz è al governo ininterrottamente dal 2010 (ma per Orbán si tratta del quarto mandato, anche se tra 1998 e 2002 si trattava di una coalizione più composita e disomogenea) così vulnerando il valore democratico dell’alternanza al potere. Tra l’altro le manipolazioni mediatiche e le restrizioni di una serie di libertà politiche come quelle di associazione, stampa, riunione, propaganda, hanno evidentemente consentito il successo del Fidesz.

 

3. Ripercorrere i presupposti ideologici dell’attuale corso politico ungherese è non solo utile ma indispensabile, dal momento che il Fidesz ed il suo leader si candidano a fare dell’Ungheria il laboratorio di una nuova forma di Stato, lo Stato nazionalista, comunitarista ed auto-referenziale (definizione preferibile a quella politologica di “democrazia illiberale”, che è una contraddizione in termini). Bisognerebbe altresì interrogarsi sull’atteggiamento conservatore della stessa società ungherese. Se tirare in ballo continuamente le ferite della storia può sembrare anacronistico, pur tuttavia il fatto che queste ferite esistano e vengano sfruttate dai capo-popoli di turno inserisce nel discorso conservatore e nazionalista un profilo di colpevolizzazione delle potenze occidentali mai del tutto rimosso nonostante l’entusiasmo del crollo del regime comunista e dell’ingresso nell’Unione europea. Il revanscismo riaffiora a tratti intermittenti nella storia di questo paese. Non è un caso che lo stesso Orbán abbia ricordato nel discorso del 2014 a Tusnádfürdő che la vittoria elettorale del suo partito era dovuta al voto degli ungheresi all’estero, vale a dire la diaspora mai abbandonata nell’immaginario collettivo e nella coscienza storica della Nazione Santa Cattolica Ungherese. Un sentimento di rivalsa e di colpevolizzazione analogo a quello assopito sotto le coltri polacche, dove il dramma delle spartizioni storiche del paese compatta la nazione. L’UE non è stata in grado di unire i popoli e la vicenda ungherese è solo uno specchio di questa carenza sotto il profilo umano, morale e psicologico che continua a generare mostri.

Ribadisco, il caso ungherese è paradigmatico, e per questo ancor più pericoloso. Non solo perché produce fenomeni di imitazione, come si vede nel caso polacco (quest’ultimo dai modi un po’ più rozzi perché a causa dell’assenza di maggioranze costituzionali si procede svalutando/svuotando la Costituzione in vigore), ma perché mette in crisi la credibilità dell’Unione non solo nella sua capacità di difesa da attacchi ai valori fondativi ma anche nei meccanismi molto complessi dell’allargamento e dell’integrazione delle “giovani” democrazie. Viene ulteriormente scardinato il paradigma della transizione “riuscita” dalla forma di Stato socialista alla democrazia costituzionale, nonostante non sia corretto affermare che la forma di Stato democratica non si fosse consolidata in Ungheria e Polonia ad oltre vent’anni dal 1989.

Una riflessione sui valori, e sulla loro condivisione, è indispensabile e deve necessariamente affiancarsi a quella sulle procedure e le tecniche (sulle quali la letteratura è costantemente concentrata) per “fermare” o “frenare” quelle che appaiono ormai come trasformazioni sistemiche forse irrecuperabili. Si impone una riflessione sull’omogeneità di valori data per scontata troppo a lungo e implosa lentamente senza che ce ne rendessimo conto, carente di attributi sociali e “comunitari”. Ciò che gli ungheresi non sono riusciti a condividere è la visione di una “comunità” europea che non danneggi e distrugga quella nazionale ma che armoniosamente possa con essa contemperarsi.

L’Ungheria sta diventando un punto di riferimento, un laboratorio mondiale della transizione dal modello liberal-democratico a quello illiberale e non democratico. Ancor più della Russia, dove la democrazia liberale, tranne limitate sperimentazioni, non è mai attecchita. Una sfida davvero ambiziosa per un paese di soli 10 milioni di abitanti (più circa 5 nei paesi confinanti) ma pericolosamente posto al centro non solo geografico ma anche mediatico e politico dell’Europa.