di Edmondo Mostacci

1. Premessa

Dieci anni di crisi sembrano avere segnato in profondità le società politiche occidentali, con conseguenze che le recenti tornate elettorali e referendarie hanno reso palesi.

Nel dibattito pubblico e accademico si sta facendo strada la convinzione che i sistemi politici europei e nordamericani si stiano in una qualche misura riorganizzando attorno a due nuove polarità – una “globalista” e una “sovranista” – le quali sembrano essere destinate a prendere il posto della classica dicotomia destra-sinistra, declinando in termini rinnovati la contrapposizione tra riformisti e conservatori.

Sicuramente questa nuova contrapposizione è testimoniata da numerosi fattori e ha quindi una sua indubbia capacità descrittiva. Tuttavia, essa sembra cogliere solo l’elemento più visibile del fenomeno, per lasciare confinati in un ideale cono d’ombra alcuni elementi della ricomposizione in atto, particolarmente significativi dal punto di vista giuridico-costituzionale.

Per tale ragione sembra opportuno imbastire il tentativo di operare un’analisi più comprensiva del fenomeno, a partire – non dal superamento ma – dalla messa in discussione della matrice composta da globalismo (a vocazione riformista) e sovranismo (di tendenza conservatrice).

Dal punto di vista nominalistico, le due polarità che sembrano emergere potrebbero definirsi – si crede in modo pertinente – come “modernizzazione conservatrice” e “reazione tradizionalista”. Si tratta di due etichette apparentemente disomogenee, come disomogenee sono le aspirazioni di fondo a cui mirano i soggetti ascrivibili a ciascuna polarità, al pari degli stili a cui tali soggetti improntano la propria prassi politica.

 

2. La modernizzazione conservatrice

L’area della modernizzazione conservatrice sembra accogliere sotto il proprio cappello i soggetti che, sino all’emergere della crisi, costituivano gli elementi centrali dei sistemi politici occidentali e quelli che, emersi nell’ultimo decennio, ripropongono dal punto di vista sostantivo un similare indirizzo politico.

Al di là delle sfumature proprie di ciascuna esperienza, la modernizzazione conservatrice sembra condividere alcuni caratterizzanti elementi di merito e di metodo. Quanto ai primi, essi coprono una molteplicità di ambiti di intervento, densi di interrelazioni reciproche. In primo luogo, si registra l’adesione in via di principio alla linea di sviluppo dell’integrazione sovranazionale, con particolare riferimento, nel contesto europeo, al consolidamento della costruzione comunitaria, senza metterne in discussione gli elementi portanti.

Sotto questo profilo, pur con diversità di accenti, si condivide l’esigenza di operare riforme che migliorino la capacità decisionale delle Istituzioni e la coerenza complessiva dell’assetto ordinamentale, ma che non riguardino temi spinosi come la partecipazione democratica a livello di UE, l’effettivo livello di solidarietà intraeuropea o la messa in discussione dell’approccio al governo dell’economia basato essenzialmente su regole (e non su politiche discrezionali).

Sul piano della politica interna, l’approccio al governo dell’economia si può riassumere nell’esigenza di operare riforme strutturali che garantiscano un più elevato livello di efficienza e di concorrenzialità tanto nei mercati dei prodotti quanto in quello dei fattori, con particolare attenzione alla necessità di rimodulare il mercato del lavoro al fine di inocularvi una robusta dose di flessibilità. A sua volta, la riforma del mercato del lavoro si accompagna a quella del welfare, onde accentuarne il (o, a seconda dei casi, conferirgli un) carattere (ri)attivatore. L’orizzonte della politica economica si chiude poi con la revisione del perimetro dell’operatore pubblico – onde lasciare al mercato il “suo” spazio e ridurre la spesa pubblica –, con il riassetto della pressione fiscale dall’imposizione diretta a quella indiretta e con la riduzione del prelievo sulle attività produttive, sulle rendite immobiliari e sui redditi da capitale.

Il quadro relativo alla politica economica non chiude quello relativo alla politica interna, il quale si caratterizza in genere per il buon livello di apertura nei confronti dei diritti civili, con particolare riferimento al superamento di quelle che ormai appaiono come discriminazioni operate sulla base dell’orientamento sessuale. Ancora, l’atteggiamento verso i fenomeni migratori si impronta a un’attitudine pragmatica, volta a dare rilievo al contributo che i migranti possono dare al sistema economico, senza tralasciare però le esigenze di controllo e di ordine pubblico, al fine di rassicurare un’opinione pubblica recalcitrante. Così, le politiche poste in essere paiono declinate più sul versante repressivo che su quello dell’integrazione e della gestione di una società multiculturale.

L’insieme di queste direttrici politiche sembra giustificare appieno l’attrazione sotto l’etichetta di modernizzazione: esse tendono a trasformare le società contemporanee incrementandone il tasso di differenziazione strutturale (N.J. Smelser, Essays in sociological explanation, Englewood Cliffs (NJ), 1968, 125 ss.) e, soprattutto, ampliando la capacità – in termini di efficienza e competitività – del sottosistema economico e sociale. Più in generale, se analizzata alla luce delle classiche pattern variables di Parsons – vale a dire: affectivity/affective neutrality; diffuseness/specificity; particularism/universalism; ascription/achievement; collectivity orientation/self orientation (T. Parsons, The Structure of Social Action. A Study in Social Theory with Special Reference to a Group of Recent European Writers, Glencoe (IL), 1949) – la trasformazione recata dalle citate direttrici spinge in misura decisa nel senso indicato.

Ancora, dal punto di vista della prassi politica – o, se si vuole, del “metodo” di governo –, si tratta di forze che condividono in via di massima un approccio elitista alla democrazia, incentrato sul ruolo forte delle classi dirigenti e sulla primazia in via di principio della democrazia rappresentativa su quella diretta, nel solco della tradizione costituzionale della gran parte dei Paesi europei.

Tuttavia, due considerazioni si impongono. In primo luogo, questa tradizione costituzionale è declinata in conformità all’attitudine di sterilizzare il conflitto politico e sociale per il tramite della riconduzione di una sfera significativamente crescente di scelte politicamente rilevanti all’alveo della legittimazione tecnico scientifica. Non soltanto, infatti, è assecondata la tendenza a delegare direttamente al decisore tecnico una pluralità di questioni dense di implicazioni politiche – a partire da quelle di carattere economico finanziario –, ma altresì la giustificazione pubblica di decisioni impopolari è resa sulla base di valutazioni fondate nell’expertise, con una singolare e duplice rimozione: quella relativa alla fondamentale inattitudine predittiva delle discipline scientifiche sulla base delle quali la decisione è presa e, soprattutto, quella concernente il suo contenuto valoriale. Si tratta di un approccio che spinge alle estreme conseguenze l’elemento razionalistico che tipicamente è proprio della modernizzazione (M. Levy, Modernization and the Structure of Societies, Princeton (NJ), 1966) e dei suoi alfieri.

Al contempo, su un piano certamente differente ma non privo di correlazioni, l’equilibrio tra efficienza decisionale e capacità inclusiva dei processi democratico-partecipativi è ricostruito in formule largamente favorevoli, almeno nelle intenzioni, al versante decisionale – con la funzionalizzazione degli organi rappresentativi all’espressione di governi stabili –, anche nell’ottica di preservare nella misura del possibile l’indirizzo politico della modernizzazione dai contraccolpi che quest’ultima è fatalmente destinata a produrre sul piano sociale.

Si tratta però di una modernizzazione a vocazione genuinamente conservatrice. Per un verso, i lineamenti di indirizzo politico che si sono sopra richiamati incidono negativamente sulla distribuzione della ricchezza, limitano i consumi pubblici e con essi la capacità redistributiva dello Stato e tendono a funzionalizzare alle esigenze del sistema produttivo e delle sue “cellule organizzative” il contributo dei prestatori di lavoro. Allo stesso tempo, nel dibattito pubblico alcuni principi cardine del costituzionalismo democratico vengono posti in secondo piano o reinterpretati in chiave fortemente riduttiva. È il caso dell’eguaglianza, il cui centro gravitazionale è ricollocato in misura del tutto prevalente sul piano formale, con l’accresciuta attenzione in merito al divieto di discriminazione, mentre la sua declinazione in senso sostanziale si riduce a un’eguaglianza delle opportunità più attenta alla parità di accesso ai servizi che ai contesti con cui questi si dovrebbero confrontare. Similmente, la mobilità sociale viene ridotta alla narrazione di storie di successo – cioè all’evento eccezionale – con contestuale scarso interesse per quei processi di passaggio tra segmenti sociali intermedi, da parte di quote significative di popolazione, che costituiscono il nerbo di una società socialmente dinamica.

Maggiori sfumature presenta il discorso sui diritti civili, dove gli interventi in materia di “divorzio breve” non hanno certamente un’attitudine socialmente conservatrice. Al contempo, la declinazione delle richieste di riconoscimento delle coppie same-sex in senso assimilazionista, se per un verso è sintomo di un’attitudine sinceramente riformista, al contempo riassorbe nell’alveo del concetto di famiglia – intesa come cellula fondamentale del tessuto sociale, fondata su legami affettivi, solidarietà economica tra i suoi membri e impegno al mutuo supporto prestato di fronte alla comunità di appartenenza – esperienze di vita altrimenti dotate di una forte carica polemica verso la tradizione (id est: verso la funzione stabilizzatrice, sul piano sociale ed esistenziale, delle relazioni sentimentali, immaginate come stabili, esclusive e morigeratrici).

Il carattere conservatore della modernizzazione del tipo considerato emerge altresì se si considera l’equilibrio tra efficienza decisionale e capacità inclusiva dei processi democratici, il quale tende a porre le istanze politiche meno assimilabili all’ordinato sviluppo dello status quo ai margini del dibattito pubblico.

Più in generale, gli elementi che si sono passati in rassegna revocano drammaticamente in dubbio la funzione emancipatoria che, nello Stato costituzionale, anima l’eguaglianza, la solidarietà e il generale discorso sui diritti, costituendo il fulcro essenziale della sua rivoluzione promessa. D’altra parte, come ricordava Calamandrei nel suo discorso del 1955, la Costituzione altro non è se non un pezzo di carta, il cui dinamismo richiede alla comunità politica un diuturno sforzo di pratica e di implementazione.

 

3. La reazione tradizionalista

Al polo della modernizzazione conservatrice si contrappongono una pluralità di forze invero eterogenee, il più delle volte riconducibili alla destra radicale e talvolta al campo della sinistra. È quindi più complicato – ma non impossibile – collocarle in una categoria unitaria e dotata di un minimo di coerenza intrinseca.

Il tentativo può articolarsi attorno all’idea di reazione tradizionalista. Pur nella differenza degli indirizzi programmatici, l’insieme di queste forze sembra essere accomunato dal rifiuto opposto ai problemi della contemporaneità e alla complessità che li caratterizza, nei confronti dei quali si avanzano pseudo-soluzioni che, nella realtà, tradiscono la voglia di recuperare alcuni elementi che caratterizzavano la realtà giuridico politica delle passate decadi.

Questa circostanza è particolarmente evidente per quanto concerne i movimenti di destra radicale o di estrema destra (sui quali v. le analisi raccolte nella sezione monografica I partiti antipartito nella crisi della rappresentanza politica, in Dir. pubbl. comp. eur., 2015 n. 3). Qui, al di là del riferimento alla necessità di riconquistare la sovranità nazionale – enfatizzata dalla dicotomia globalisti-sovranisti –, l’elemento che emerge con forza è quello relativo all’esaltazione della comunità nazionale come fattore di inclusione sociale, sulla base del quale articolare il discorso politico. In altre parole, di fronte alla marginalizzazione politica, economica e sociale prodotta dall’attuale modello socioeconomico e acuita drammaticamente dalla crisi del 2008, la risposta fornita dalla destra radicale enfatizza l’elemento dell’appartenenza alla comunità statuale in funzione ad un tempo rassicuratrice ed egualizzante. A sua volta, l’elemento sulla base del quale articolare il binomio inclusione/esclusione è ricondotto non tanto all’idea di iscrizione alla comunità politica quanto piuttosto a quello di appartenenza alla comunità nazionale. Il ritorno dal demos all’ethnos esalta l’appartenenza e soprattutto la radica su di un elemento tradizionalista ed emotivo che non è aggredibile, almeno come categoria in sé e nelle intenzioni dei suoi proponenti, dalla modernizzazione globalista.

A sua volta, l’esaltazione di un’appartenenza fondata su un elemento emotivo e tradizionalista contribuisce a dare adito a un’operazione ulteriore: lo schermo della collettività nazionale riduce la complessità del corpo sociale, la sua differenziazione intrinseca, l’alterità delle istanze che ne provengono e le contraddizioni che da ciò si generano, con il risultato di oggettivare l’interesse nazionale e di affidarne quindi la definizione a un leader carismatico. Anche nel caso della reazione tradizionalista, insomma, il processo politico – per quanto permanga nell’alveo democratico – si sbilancia in favore della decisionalità, a discapito del suo carattere partecipativo e inclusivo.

Se l’elemento reazionario e tradizionalista è particolarmente evidente per i movimenti di destra radicale e per quelli, invero meno significativi sul piano numerico, della destra estrema, esso si presenta in misura sufficientemente chiara anche per ciò che concerne alcuni soggetti alla sinistra dello schieramento politico. Questi, almeno nell’ultimo decennio, sembrano avere perso alcuni dei loro caratteri più innovativi, a partire dal legame con la società civile e con i movimenti neoglobalisti dell’inizio del nuovo millennio, per ripiegare su una proposta politica in buona misura incentrata sul semplice rifiuto della deriva neoliberale del modello socio economico dei Paesi occidentali.

Tuttavia, e qui sta il punto, questo rifiuto in via di principio non è accompagnato da un’analisi sufficientemente spregiudicata del reale, in grado di supportare una visione sulla base della quale guidare qualsivoglia processo di trasformazione. Al contrario, apre la prospettiva politica di una mera contestazione dell’esistente – a cui si contrappone la bontà del modello socio economico precedente – la cui essenza fondamentale è di carattere spiccatamente reattivo. In altre parole, essi si mostrano reazionari in senso più etimologico che strettamente politico, nel senso per cui l’agire politico si declina nelle forme di un resistere al cambiamento, di reagire alla trasformazione delle società politiche occidentali, riaffermando ciò che di buono c’è nel modello in via di superamento. Così, le principali proposte politiche avanzate dalle forze politiche reattive che si posizionano sul lato sinistro dello scacchiere politico finiscono per calzare più a una società fordista che non alle istanze di protezione che emergono dalla contemporaneità. Parallelamente, poco si dice con riferimento, ad esempio, alle nuove forme di monopolio e di concentrazione del potere recate dallo sviluppo della rete, delle tecnologie informatiche e dall’economia della conoscenza.

In buona sostanza, l’insieme delle forze che si contrappongono alla modernizzazione conservatrice ha in primo luogo un’attitudine tradizionalista: il legame con un modello economico e sociale ora del tutto superato – per ciò che riguarda la destra radicale – ora in fase di superamento è affermato in aperta polemica con i processi di trasformazione legati alla globalizzazione e alle dinamiche proprie del capitalismo contemporaneo. Parimenti, la proposta politica che queste forze avanzano ha carattere intimamente reattivo e, di conseguenza, una vocazione ora apertamente, ora cripticamente reazionaria.

 

4. L’inesistenza di terze prospettive

Modernizzazione conservatrice e reazione tradizionalista non chiudono ogni possibilità di azione politica. Anzi, la realtà fattuale sembrerebbe fornire una quantità di istanze e di contraddizioni su cui il pensiero progressista potrebbe ben mettersi alla prova, reinventando distinzioni, cleavages e appartenenze ed elaborando prospettive di azione politica che siano in grado di confrontarsi efficacemente con i problemi della modernità, anche nell’ottica di dare nuova linfa e rinnovata esecuzione ai principi di cui è innervato il costituzionalismo democratico.

Tuttavia, le forze politiche che non rientrano all’interno delle due categorie hanno avuto scarso successo elettorale o, qualora lo abbiano avuto, hanno rapidamente converso verso una delle due polarità appena segnalate. Non spetta a queste rapsodiche considerazioni elaborare una chiave interpretativa di questo fenomeno assai complesso. Vale piuttosto la pena di concentrarsi sulle conseguenze dispiegate sui sistemi costituzionali dalla ricomposizione del sistema politico secondo le due polarità oggetto di analisi.

In primo luogo – lo si è già segnalato – l’assenza di prospettive politiche che sappiano declinare in specifiche prassi di governo la vocazione emancipatoria del disegno sotteso al costituzionalismo democratico determina uno smarrimento di senso dei principi e degli istituti giuridici che lo caratterizzano.

Al contempo, né la modernizzazione conservatrice, né la reazione tradizionalista sembrano fornire risposte convincenti agli strati sociali che, nell’evoluzione del modello socio-economico, subiscono un processo di progressiva marginalizzazione sociale e di detrimento del proprio tenore di vita, per ragioni che vanno oltre il pur rilevante dato reddituale (dall’incertezza delle prospettive, alla necessità, data la crescente funzionalizzazione dei tempi di vita alle esigenze dell’organizzazione produttiva, di esaudire sul mercato bisogni che sino a non molto tempo fa venivano soddisfatti nella sfera domestica).

Non pare soddisfacente la prospettiva offerta dalla modernizzazione conservatrice: infatti, larga parte di questi strati sociali ha abbandonato quelle che un tempo erano le forze centrali del sistema politico (e, in particolare, quelle legate alla tradizione socialdemocratica); parimenti, di fronte a quesiti specifici, tende a favorire l’opzione contraria a quella più affine allo status quo (sull’esempio più rilevante, vale a dire il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’UE, v. l’analisi di M. Goodwin, O. Heath, Brexit vote explained: poverty, low skills and lack of opportunities, Joseph Rowntree Foundation, 2016, e, se vuoi, il mio Viaggio al termine della storia: brexit e il volto oscuro della globalizzazione, in Dir. pubbl. comp. eur., 2016, 791 ss.).

Parallelamente, la risposta della reazione tradizionalista può apparire sulle prime seducente, ma non sembra in grado di reggere in alcuna misura alla prova dei fatti: il suo carattere emotivo e fondamentalmente reattivo può offrire rappresentazione a sentimenti di profonda insoddisfazione – o, per dirla con un filosofo un po’ démodé, si tratta di forze reattive atte a sviluppare risentimento e cattiva coscienza (v. G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, Paris, 1962) –, ma risulta del tutto inadeguato a indirizzare l’evoluzione delle società occidentali in forme più affini alle istanze dei gruppi sociali penalizzati dalle trasformazioni in atto.

Nel medio periodo, almeno in assenza di terze prospettive, il risultato complessivo sembra essere quello di una sostanziale “insularizzazione” di gruppi sociali numericamente ampi, ma destinati alla minorità economica e sociale e, ciò che più conta, alla marginalità politica. È un risultato che non soltanto segna il fallimento della vocazione inclusiva dello Stato costituzionale, ma che revoca in dubbio la pregnanza del concetto stesso di Repubblica. Al fondo, è un esito che erode, in modo sottile ma costante, la legittimazione politico-giuridica degli ordinamenti liberaldemocratici.