Michele Taruffo

(Vigevano 12 febbraio 1943 – Pavia 10 dicembre 2020)

Fra le molte considerazioni possibili, quella che principalmente si deve riferire alla figura di Michele Taruffo è il suo essere stato un intellettuale di assoluta grandezza nell’ambito degli studi giuridici fra la seconda metà del Ventesimo secolo e il primo ventennio del secolo successivo. Questa caratterizzazione assume una valenza ancora maggiore se poi la si rapporta al suo tendenziale ambito di attività scientifica, quello del diritto processuale civile. In quest’ambito la figura di Taruffo davvero si staglia per la sua intrinseca singolarità di approccio e di interessi; ciò sul piano scientifico, umano e appunto tout court intellettuale. E credo si debba ricondurre alla sua immensa curiosità culturale, che è stata il vero nucleo di tale singolarità, anche -forse soprattutto - la caratterizzazione di Taruffo come comparatista di impareggiabile livello.

Nel contesto della cultura giuridica italiana è notorio il rilievo assunto, specie nel corso del XX secolo, dagli studi processualistici, e processualcivilistici in particolare.  In quest’ambito Taruffo entra subito dopo la laurea sollecitato da un altro grande studioso quale Vittorio Denti, che sarà per sempre il suo maestro riconosciuto e al quale verrà riservata nel tempo un’assoluta stima e rispetto sul piano scientifico e culturale (Taruffo, Ricordo di Vittorio Denti, in Riv. dir. proc. 2002, 571). È appunto il côté culturale - della visione del diritto come cultura da confrontare costantemente con le altre culture traendone nuove sollecitazioni e curiosità - che costituisce l’elemento davvero comune fra l’iniziatore della cosiddetta “scuola di Pavia” del diritto processuale civile, Vittorio Denti appunto, e il suo continuatore Michele Taruffo. A prescindere dalla stessa esplicita ammissione da parte dei due grandi giuristi dell’assoluta specificità di questo fenomeno, la sua eccezionalità appare oggi assoluta - con la sola eccezione della corrispettiva e molto collegata “scuola di Firenze” cappellettiana - nel panorama della cultura giuridica italiana, a partire quantomeno dall’ultimo trentennio del ‘900 (Dondi, Scuole italiane di diritto processuale civile nella seconda parte del XX secolo – Una visione partigiana, Studi in onore di Franco Cipriani, vol. III, 2020, pp. 2151-2160). 

Gli anni ’70 costituisco, in effetti, un momento del tutto cruciale anche per la caratterizzazione della figura di Taruffo all’interno di questo panorama, come pure per la precisazione/definizione delle sue scelte tematiche e del suo approccio metodologico. E occorre subito dire che tutto ciò in Taruffo avviene in maniera altrettanto singolarmente rapida, oltre che con inconfondibili caratteri di pressoché immediata e definitiva assunzione di una personalità intellettuale che permarrà in seguito come tipica al punto di essere molto agevolmente individuabile come “taruffiana”(Taruffo, Il giudice e lo storico: considerazioni metodologiche, in Riv. dir. proc. 1967, 438). Non esiste pertanto, riguardo a questo autore, la possibilità di immaginare per così dire un “ritratto di artista da giovane”, ma esiste da subito e con evidenza estrema una sicura caratterizzazione di maturità già del tutto strutturata riguardo alle scelte di fondo.

La più caratteristica di tali scelte è per certo lo sguardo esterno, che si connota principalmente come attenzione verso le più stimolanti elaborazioni della filosofia e della sociologia contemporanee. Occorre, tuttavia, subito dire che questa curiosità estesa al di là del dato strettamente giuridico in Taruffo non appare affatto disgiunta dalla sua attività di giurista; che, anzi, è propriamente tale in lui in quanto svolta praticando a tutto campo analisi implicanti l’utilizzazione combinata dei più svariati e raffinati strumenti interpretativi della realtà. Strumenti la cui utilizzazione viene trasferita anche all’analisi della realtà processuale; e ciò al fine di affrontarne le principali discrasie con un effettivo intento di trasformazione.

È direi soprattutto in questo quadro di propensioni, interessi e incommensurabile energia lavorativa che si colloca lo sguardo comparatista di Michele Taruffo. E non sorprende, data la pressoché immediata acquisizione di un solido patrimonio di conoscenze circostanti e ulteriori a quelle della “tecnica giuridica” tradizionale, che proprio in questo côté si manifestino capacità di intuizione ed elaborazione da subito -e per sempre nella successiva attività di questo autore- del tutto sorprendenti.  Una testimonianza davvero significativa a questo riguardo è fornita da un a tutti gli effetti eccezionale early work come quello costituito dalla monografia - in realtà la sua seconda – intitolata Il processo civile adversary nell’esperienza americana del 1979.

Questo lavoro, che già funge da completamento di una serie di altre ricerche aventi un dichiarato carattere comparatistico, risulta interessante sotto vari profili. Come appunto già in alcuni saggi precedenti, in esso si individua anzitutto nell’ordinamento statunitense il referente comparatistico privilegiato nelle ricerche di Taruffo; con ciò realizzando un collegamento che permarrà sostanzialmente costante nel corso degli anni.

Ma forse ancora più rilevante è che correlativamente, e già nei suoi primi trent’anni, l’autore assesta e rifinisce con questo lavoro anche un suo personale taglio stilistico, che combina il profilo metodologico dell’indagine a fondamentali scelte di ordine per così dire ideologico (o, per ricorrere a una terminologia dell’epoca, di cosiddetta “politica del diritto”) che vede nel processo civile essenzialmente uno strumento di giustizia anche sociale da rendere quanto più possibile effettivo. In questa chiave, il referente privilegiato per il raffronto non è invero tel quel l’ordinamento processuale statunitense quanto piuttosto la cultura nordamericana, giuridica e non. L’attenzione è, infatti, essenzialmente rivolta sia all’elaborazione che in forma di intenso scholarly debate circonda lì l’adozione di fondamentali normative in ambito processuale e probatorio sia - in stretta e sostanzialmente inscindibile combinatoria - agli studi teorico-generali, quando non propriamente filosofici ed epistemologici, che vedono la luce nell’ambito di una cultura statunitense particolarmente vivace nel corso di tutto il ‘900 (in generale a questo riguardo Dondi, Taruffo comparatista – Uno sguardo originale ai problemi del processo civile, in Riv. trim. dir. proc. 2015, 405, anche per gli opportuni riferimenti bibliografici alla produzione di Taruffo).

Invero, sulla base di queste scelte, Taruffo è in condizione di essere sempre sé stesso, senza doversi sdoppiare en tant que comparatiste o come giurista di diritto interno. E ciò per la sua adesione - peraltro in coerenza con la concezione della comparazione processuale già elaborata dal suo maestro Denti – a una concezione per così dire altamente strumentale del raffronto con le altre culture, comparatistica in principle e in ogni caso anche quando non riferita a culture catalogabili come giuridiche in senso stretto. A più riprese del resto Taruffo espliciterà le ragioni di questa postura intellettuale ricorrendo, soprattutto nell’ultima parte della sua vita, a definizioni di grande capacità evocativa come in particolare quella de suo essersi tendenzialmente collocato “sui confini” (Taruffo, Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, 2002). 

Nella sua pressoché immensa vastità, tutta la produzione di Michele Taruffo è pertanto stata in varie maniere comparatistica; sia quando si è esplicitamente rivolta verso l’altro giuridico sia quando ha fatto uso di raffronti culturali anomali per gli standard della nostra cultura giuridica, e processualistica in particolare. Si può dire lo sia stata anche quando ha analizzato e valutato il procedere delle nostre riforme del processo non limitandosi a esegesi testuali ma utilizzando raffronti culturali e giuridici per molti versi scomodi per la tradizione assestata nel nostro Paese. E si può anche dire che comparatisticamente configurato sia stato addirittura il suo stile di scrittura, quasi esteticamente inteso come da rendere quanto più possibile privo di orpelli e neet in quanto essenziale strumento di chiarezza espressiva.

Di qui anche - essendo oggi possibile un proporzionamento sicuramente negativo delle numerose marginalizzazioni, se non addirittura sottovalutazioni, subite a opera di parte della nostra cultura giuridica - una grandezza riconosciuta a livello mondiale che, al di là dalla sua catalogazione come giurista processuale o comparatista o teorico generale, lo individua senza dubbio come uno dei maggiori intellettuali del nostro tempo.

Angelo Dondi