di Luigi Testa

Secondo le statistiche del Congressional Research Service, il record resta ancora quello del senatore Strom Thurmond, del South Caroline, che nel 1957 riuscì a parlare al Senato per ventiquattro ore e diciotto minuti di fila. Ben oltre di quanto era andata anche la fantasia di Frank Capra, nei tempi d’oro di Hollywood. Nel suo Mr. Smith Goes to Washington, del 1939, Claude Rains, nei panni del senatore Joseph Harrison Paine, parla dal suo seggio per ventitré ore di seguito, prima di cadere a terra svenuto.

La Camere dei Rappresentanti è l’arena politica in cui si va pistols in hand, ma il Senato degli Stati Uniti è lo spazio del più rispettoso dibattito politico – la raison a correggere l’imagination della Camera bassa, per mutuare Boissy d’Anglas dal dibattito costituente post-rivoluzionario francese. E, a consacrare quest’ideale, per la Rule XIX del Senato «no Senator shall interrupt another Senator in debate without his consent». In concreto, per ogni occasione in cui vi può essere dibattito, la regola riconosce a ciascun senatore due distinti diritti: il right to recognition, ossia la possibilità di essere autorizzato a parlare senza che la lettera della disposizione sembri lasciare qualche spazio alla discrezionalità di chi assume la presidenza («the Presiding Officer shall recognize the Senator who shall first address him»); e il right to speak at lenght, fosse anche per più di ventiquattro ore come nell’insuperato record del ’57, e senza neanche che sia garantito il carattere “non eccentrico” del dibattitto rispetto al suo oggetto (germaneness of debate), se non nelle prime tre ore di ogni giornata. Così, tra la prima e la seconda guerra mondiale, non mancò il senatore della Louisiana, Huey Long, che intrattenne gli interessatissimi colleghi sui dettagli per una buona preparazione delle ostriche fritte.

In più, c’è sempre l’espediente di chiedere che sia verificato il quorum per la validità della seduta, con un appello che, peraltro, a complicare le cose, non può essere chiamato da chiunque abbia la presidenza dell’aula, ma solo dal Clerk. Se si scorrono i verbali delle sedute, impressiona quante volte ricorra il «Mr. President, I suggest the absence of a quorum». Una formidabile arma nelle mani dell’opposizione soprattutto quando si tratta di approvare atti a scadenza obbligata, come, ad esempio, l’autorizzazione legislativa di spesa per il nuovo esercizio di bilancio: allo shutdown governativo del 2013, che portò ad una riduzione del PIL pari allo 0,3%, si arrivò per questa strada.

In Italia lo chiamiamo ostruzionismo; negli Stati Uniti è, più evocativamente, pirateria. “Filibustering”, per il passaggio dall’olandese, richiama proprio l’attività dei corsari, non molto diversamente dal nostro “filibustiere”.  Qualche strumento immunitario c’è. Proprio la Rule XIX, anzitutto, limita il right to speak dei Senatori a due soli interventi per giornata, e non per calendar day, ma per legislative day: la two-speech rule, quindi, non si calcola sulla giornata solare, ma vige fino a quando il Senato non si riaggiorna. Vale la pena di precisare, tuttavia, che si torna al calcolo sul calendar day quando si tratta di executive bunsiness, e dunque, ad esempio, di nominations.

Lo strumento più efficace per combattere strategie di filibustering, però, resta quello previsto dalla Rule XXII, a mente della quale ciascun senatore può presentare una cloture motion, firmata da almeno sedici colleghi, «to bring to a close the debate». Introdotta nel 1917 per arrivare al dunque nel dibattito sulla partecipazione degli USA alla guerra mondiale, l’effetto della mozione, che è discussa e messa ai voti due giorni dopo la sua presentazione, è quello di spiazzare definitivamente l’ostruzionismo della minoranza: il tempo del dibattito è ridotto al massimo di trenta ore – salvo tetti diversi fissati in ciascuna legislatura – con un massimo di un’ora per ogni Senatore iscritto a parlare; la regola della germaneness of debate è recuperato, lasciando sul punto un ampio potere di stralcio al presiding officer, il quale, peraltro, può – diversamente dal solito – procedere anche direttamente alla verifica del quorum; ed anche lo jus emendandi è limitato, con l’esclusione di emendamenti proposti oltre le 13.00 del giorno successivo alla presentazione della cloture motion (salvo il caso, ovvio, di emendamenti ad emendamenti, o di emendamenti al novum). In pratica, una volta approvata la cloture motion, al più tardi entro trenta ore, di regola, si va al voto; e in realtà molto spesso l’interesse di entrambe le parti è quello di andarci ancor più speditamente. Il punto, però, è approvarla.

Ai sensi della Rule XXII, la mozione – «Is it the sense of the Senate that the debate shall be brought to a close?» – è approvata se lo yea ottiene i tre quinti dei voti del Senato, corrispondenti di regola a 60 Senatori. La previsione originale, invero, era nel senso di richiedere i due terzi dei voti favorevoli – dunque 67 Senatori –,  ma nel ’75 si abbassa il tiro, lasciando la regola fino a quel momento vigente valevole soltanto per i casi in cui oggetto di dibattito sia una modifica del regolamento del Senato.

Contare su 60 senatori non è comunque cosa da poco. Nei due mandati dell’era Obama, solo nel secondo semestre del 2009, complice la vacanza di uno e poi due seggi, i Dems contano i tre quinti necessari per l’approvazione di una cloture motion. Nel 115esimo Congresso in corso, i Senatori Repubblicani si contano in 52, ancora lontani dalla quota della Rule XXII. In pratica, alla minoranza basta avere 41 Senatori per dominare la maggior parte dei processi decisionali, impedendo l’adozione di una cloture motion.

Inizialmente pensata soltanto per il procedimento legislativo, nel 1949 la Rule XXII viene estesa anche alle nominations, anche se dovremo aspettare il 1968 per la sua prima applicazione in questo tipo di procedimento. Da questo punto di vista, il momento di svolta si presenta nel corso del 113esimo Congresso: ancora un Congresso diviso, ancora con una maggioranza democratica al Senato che non ha i numeri per approvare una cloture motion. E la svolta non si opera con una modifica della norma regolamentare in questione – che richiederebbe maggioranze superiori alla semplice – ma con un intervento sul piano interpretativo, stabilendo un nuovo precedente: qualcuno li chiama, con espressione forte, nuclear proceedings.

Nel novembre 2013 bisogna, infatti, confermare la nomina di Patricia Ann Millett a Circuit Judge del distretto di Colombia. Dopo due tentativi falliti per approvare una cloture motion, il 21 novembre il Senato smentisce l’interpretazione della Rule XXII data dal chair nel senso di ritenere necessaria una maggioranza di tre quinti anche per le nominations, e contestualmente approva (52 a 48) una nuova interpretazione, nel senso di ritenere sufficiente la maggioranza semplice (di 51 senatori, dunque), fatte salve le nomine per i giudici delle Supreme Court, dando espressamente ad essa il valore di precedente per l’applicazione del regolamento d’aula.

L’ “opzione nucleare” del November 21 Precedent ha l’effetto, dunque, di modificare l’interpretazione della  Rule XXII, senza un vero emendamento del suo testo, permettendo alla claudicante maggioranza democratica di salvare le nomine dell’ultimo scorcio della Presidenza Obama. Ad eccezione, si diceva, delle nomine per i giudici di Capital Hill, per i quali continua a valere la regola della maggioranza dei 60 senatori per una mozione che neutralizzi operazioni di filibustering.

Il senso condiviso in Senato, infatti, è sempre stato sempre quello di lasciare il dibattito libero – accettando il rischio di interventi pretestuosi – su una scelta così delicata quale quella inerente la nomina dei giudici della Corte suprema. In effetti, dal 1949 – anno in cui la Rule XXII viene estesa alle nomine – , soltanto quattro volte in Senato è stata presentata una cloture motion per portare il dibattito ad una conclusione certa. La prima fu per Chief Justice Fortas, nel 1968, e quella fu la prima volta in assoluta in cui si fece ricorso allo strumento in esame per una nomination (rigettata; 45 a 43); la seconda fu per William H. Rehnquist, nel 1971 (rigettata; 52 a 42), e di nuovo, per la sua nomina a Chief Justice, nel 1986 (approvata; 68 a 31); da ultimo è toccato al giudice Alito, nel 2006 (approvata; 72 a 25). Quattro casi, dunque; tutti comunque precedenti alla virata interpretativa del 2013. D’altra parte era dal maggio 2010 che il Senato non si trovava a confermare la nomina di un giudice della Corte Suprema: tempi d’oro, quelli, in cui i Democratici contavano 57 Senatori, più due indipendenti. Poi è arrivato Gorsuch.

La nomina del successore di Scalia è stata oggetto di riflessioni politiche e giuridiche cui in questa sede si può solo rinviare; qui vale la pena, forse, solo notare come essa sia stata “celebrata” dallo staff presidenziale come uno degli atti più attesi e decisivi del “nuovo corso” inaugurato da Trump, anche sui social intestati al Presidente (che, peraltro, con scelta inedita, mantiene un profilo Twitter personale accanto a quello istituzionale di POTUS). La maggioranza dei cinquantadue Senatori Repubblicani, dunque, si trova chiamata a sostenere una battaglia su cui il nuovo Presidente punta molto, ma, Rules e numeri alla mano, non è in grado di «bring to a close the debate» contro l’ostruzionismo della controparte politica.

Ma andiamo per gradi. La nomina arriva al Senato il 1° febbraio, e fino al 3 aprile è presso la Committee on the Judiciary. Iscritta al calendario dei lavori d’aula, il primo passo è, di regola, l’approvazione di una motion to proceed, approvata a maggioranza semplice, che segna l’apertura del dibattito. La motion to proceed è votata senza dibattito, e dunque è libera da rischi di precoce ostruzionismo, e, nel caso di specie, è approvata con una maggioranza di 55 a 44. È già da metà marzo, tuttavia, che il leader della minoranza Democratica, Chuck Schumer, non fa mistero dell’intenzione di portare avanti un serrato ostruzionismo in aula; lo stesso giorno in cui la motion to proceed è approvata, dunque, i Repubblicani presentano una cloture motion. Votata, come di regola, due giorni dopo, il 6 aprile, la mozione è respinta con soli 55 voti a favore, come ampiamente prevedibile. La soluzione tentata dal leader Repubblicano, Mitch McConnell, è allora quella di estendere il November 21 Precedent anche alle nomine per la Corte suprema. Il resoconto stenografico della seduta restituisce uno scambio di battute invero rapidissimo, che però segna un tornante importante nella storia dell’ostruzionismo parlamentare statunitense.

McConnell parla di «unprecedented partisan filibuster» su una nomina per la Corte suprema, che rompe «an almost unbroken tradition of never filibustering judges», e propone un ordine del giorno (point of order) secondo il quale il precedente del 2013 andrebbe inteso nel senso di ritenere sufficiente «a majority vote for all nominations», anche per la Supreme Court. La presidenza rigetta l’ordine del giorno, riproponendo l’iniziale interpretazione del precedente invocato. A questo punto, McConnell impugna la decisione della presidenza, chiedendo che venga sottoposta al voto dell’aula: «Shall the decision of the Chair stand as the judgment of the Senate?», e 52 su cento rispondono nay.

In pochi minuti, dunque, il November 21 Precedent è esteso anche alle nomine per la Corte suprema, e immediatamente si pone ai voti una cloture motion per porre termine al dibattito sulla nomina di Gorsuch, che è validamente approvata, a questo punto, con 55 voti favorevoli e 45 contrari. Il giorno dopo, il dibattito è chiuso e si passa ai voti: la nomina è confermata, con 54 voti a favore, e un astenuto.

La vicenda della ricordo all’ “opzione nucleare” dell’allargamento del precedente del 2013 per la confirmation di Justice Gorsuch può essere oggetto di una duplice valutazione: la prima di natura politica, la seconda di natura giuridica.

Sotto il profilo dell’opportunità politica, il giudizio non può essere dissimile da quello relativo alla mossa della maggioranza democratica al Senato nel novembre 2013. In entrambi i casi, una maggioranza incapace di esprimere i numeri per approvare una motion cloture ai sensi della Rule XXII, nell’esercizio del monopolio interpretativo della norma regolamentare, ne dà una nuova interpretazione nel senso di richiedere una maggioranza inferiore in alcune date circostanze (prima per le nominations diverse da quelle per la Supreme Court; poi per tutte le nomine).

Certo, si può ritenere che il Court Nomination Process richiederebbe forse una condivisione maggiore di quella della stretta maggioranza, ed è, d’altra parte, quello che sembra segnalare il leader democratico Schumer nel dibattito in aula, laddove fa notare che dalla Presidenza Eisenhower ad oggi soltanto due giudici sono stati eletti con maggioranze inferiori a 60 Senatori (Justice Thomas nel 1991, e Alito nel 2005, ma in questo secondo caso – lo si è visto – la maggioranza di 60 si era raggiunta a monte per approvare la cloture motion). Ma qui può intervenire, tutto sommato, una considerazione più strettamente giuridica.

L’effetto che viene dalla combinazione delle Rules XIX e XXII, come si anticipava in parte sopra, è quello di lasciare che una minoranza in grado di contare 41 voti, di fatto, agisca da maggioranza, decidendo del destino del dibattito in aula. E questo, fino al 2013, per ciascun tipo di procedimento di quelli di cui il Senato è protagonista: legislativi e non legislativi. Solo, infatti, una super-maggioranza di 60 Senatori sarebbe in grado di impedire che l’ostruzionismo dell’altra parte porti la misura in esame «to death», come si dice in gergo. Di fatto, la majority rule, al Senato, finisce così per rappresentare un ricordo del passato, rimpiazzata dalla nuova regola della super-majority, che però non trova sicuro fondamento costituzionale, diversamente da quello che nelle fondamentali Robert’s Rules of Order resta ancora «the basic principle of decision in a deliberative assembly».

A questo «basic principle» riporta il November 21 Precedent e il suo ampliamento nel caso Gorsuch, che, dunque, integra un’operazione che potrebbe anche essere apprezzata per il suo riavvicinamento a quello che sembra il paradigma istituzionale più corretto.

Naturalmente, la scelta del 6 aprile è destinata a formare anch’essa un precedente che le parti politiche non si guarderanno dall’invocare quando domani dovesse tornare utile, ma la sua efficacia è evidentemente limitata: salvo imprevisti, non ci sarà da votare di nuovo molto presto per la Corte suprema. E, riempito il seggio lasciato libero da Scalia, non è certo neutralizzato l’ostruzionismo con cui la maggioranza repubblicana dovrà fare i conti ancora per tutto il resto del Congresso in corso, senza i numeri necessari per approvare una cloture motion.

Né un’ “opzione nucleare” per derubricare la super-majority di 60 senatori all’ordinaria maggioranza sarebbe ancora praticabile per i procedimenti legislativi – che costituiscono l’arena più significativa: si pensi alla “sospirata” riforma del servizio sanitario: un’operazione del genere sarebbe assolutamente incompatibile con la lettera della Rule XXII, e non potrebbe essere compiuta, dunque, sul solo piano dell’interpretazione.

Né è più facile andare ad emendare direttamente la disposizione regolamentare. Posto che – come si è visto sopra – una cloture motion sulle modifiche del Regolamento chiede la più alta maggioranza dei due terzi, i Repubblicani avrebbero bisogno di 67 voti per vincere l’opposizione democratica: ipotesi che oggi è quasi fantascientifica.

Insomma, la partita per Gorsuch sarà pure vinta, ma non si illuda Trump: non sarà facile la vita con i corsari in laticlavio alle calcagna.