di Giulia Caravale

L’annuncio della snap election

Il 18 aprile 2017 la Premier britannica Theresa May ha comunicato ai giornalisti convocati di fronte a Downing Street la sua intenzione di chiedere lo scioglimento anticipato della Camera dei Comuni per indire nuove elezioni l’8 giugno, dopo solo due anni dalle precedenti. La decisione della May e del suo governo ha colto molti di sorpresa, soprattutto perché la stessa Premier, in diverse precedenti occasioni, aveva dichiarato che la legislatura sarebbe durata fino alla scadenza naturale del 2020.

Bisogna ricordare che in questi mesi più volte i commentatori politici e la dottrina si erano interrogati sulla possibilità di un ricorso anticipato alle urne da parte della May. Già nel luglio 2016, appena divenuta nuovo leader del partito conservatore e nominata di conseguenza nuova Premier, alcuni avevano pensato che la May avrebbe dovuto sciogliere la Camera dei Comuni per indire nuove elezioni in modo da ricevere una investitura diretta dall’elettorato che l’anno prima aveva scelto il partito guidato da David Cameron. La May non lo aveva fatto, seguendo, peraltro, l’esempio dei suoi predecessori, come accaduto nel caso degli avvicendamenti Thatcher-Major nel 1990 e Blair-Brown nel 2007[1]. Non era questo, peraltro, l’unico motivo per cui era stato auspicato il ricorso alle urne. Alcuni lo avevano chiesto per uscire dall’impasse dopo il referendum sulla Brexit derivante anche dall’apparente contrasto tra la sovranità popolare espressa nel referendum e la sovranità parlamentare di una Camera dei Comuni a maggioranza favorevole al Remain. Un contrasto che è stato comunque risolto il 16 marzo 2017, quando il parlamento ha approvato l’European Union (Notification of Withdrawal) Act consentendo l’avvio della procedura di recesso dall’Unione.  Altri, infine, ritenevano che la May avrebbe dovuto far ricorso ad una sorta di “scioglimento-referendum”[2] per chiedere agli elettori un completo mandato prima di precisare il contenuto del progetto governativo sugli obiettivi da raggiungere nei negoziati con l’Unione europea. Il partito conservatore, infatti, alle elezioni del 2015, aveva inserito nel suo manifesto solo l’impegno a definire un nuovo rapporto con l’Europa (e l’accordo era stato raggiunto nel febbraio 2016) e ad indire un referendum sulla Brexit; nulla aveva disposto, invece, sul futuro rapporto con l’Ue in caso di vittoria del Leave. Anche se la Premier ha dichiarato di aver bisogno di un mandato per gestire al meglio i negoziati dei prossimi anni, il 17 gennaio ha già illustrato gli obiettivi che il Regno Unito vorrà perseguire, obiettivi confluiti nel white paper The United Kingdom’s exit from and new partnership with the European Union presentato il 2 febbraio in cui ha chiarito il progetto di “hard Brexit” che il governo desidera attuare.

Proprio in questo documento governativo la Premier ha affermato che il Paese, che si era diviso sul referendum, stava di nuovo trovando unità (“Because after all the division and discord, the country is coming together. The referendum was divisive at times. And those divisions have taken time to heal”[3]). Una affermazione che era apparsa un po’ distante dalla realtà, sia perché i sondaggi condotti dopo il referendum continuavano a mostrare le divisioni dei cittadini sul tema, sia perché in questi mesi si sono moltiplicate le tensioni scissioniste in Scozia e in Irlanda del Nord, proprio a motivo della Brexit.

E’ interessante notare che una analoga affermazione si trova anche nel discorso della May del 18 aprile. In questa occasione, infatti, la Premier ha dichiarato che, per garantire maggiore stabilità al Paese durante i negoziati sulla Brexit, ha bisogno del sostegno da parte del parlamento di Westminster, attualmente diviso sul tema, al fine di rendere più forte la posizione del Regno Unito. La May ha ribadito che “The country is coming together”, aggiungendo, questa volta “but Westminster is not. Labour have threatened to vote against the final agreement we reach. The Lib Dems have said they want to grind the business of government to a standstill. Unelected members of the House of Lords have vowed to fight us every step of the way.”

La May ha chiesto quindi agli elettori una “stronger leadership” per portare a termine il divorzio dalla Ue attraverso un voto che potrebbe consentirle di avere una posizione più solida a livello interno e internazionale.

Le motivazioni della scelta

La stampa si è interrogata sulle reali ragioni che hanno guidato la May nella sua scelta di ricorrere allo scioglimento anticipato dopo soli due anni e con una maggioranza assoluta di seggi ai Comuni. La prima, e più ovvia, giustificazione che è stata data è che i sondaggi attribuiscono al partito conservatore 20 punti percentuale in più rispetto al laburista: la Premier non sarebbe riuscita a resistere alla tentazione di garantirsi una maggioranza molto più consistente in termini di seggi rispetto all’attuale di soli 17, soprattutto se dovessero veramente concretizzarsi le previsioni contenute in alcune analisi, secondo le quali le nuove elezioni potrebbero portare il partito conservatore a ottenere una maggioranza di addirittura 130 seggi[4].  Il trend positivo dei tories era peraltro già emerso alle elezioni suppletive tenutesi il 23 febbraio 2017 nel collegio di Copeland, storica roccaforte laburista, dove la candidata conservatrice era riuscita a conquistare il seggio. Se i sondaggi dovessero essere confermati, la Premier potrebbe garantirsi una solidità parlamentare e, di conseguenza, governativa per i prossimi 5 anni, anni cruciali per completare la separazione dall’Unione europea. E’ stato osservato[5] in proposito che l’attuale scioglimento consente anche alla May di posticipare le prossime elezioni, permettendo così al partito conservatore di fissare il successivo appuntamento elettorale nel 2022 e non nel 2020, una data in cui il divorzio dall’Ue sarà non solo completato, ma anche definitivamente metabolizzato dagli elettori.

A confortare la May nella sua scelta sono, poi, i dati dei sondaggi che - dopo l’annuncio dello scioglimento - hanno registrato addirittura un aumento della percentuale di vittoria del partito di governo e tracciato un profondo solco tra i due principali partiti, solco che appare difficilmente colmabile per i laburisti. Grande attenzione è diretta ora ai risultati delle elezioni amministrative previste per il prossimo 5 maggio in 34 councils inglesi, 6 combined local authority mayors, in tutti e 22 i councils gallesi e nei 32 scozzesi. Tali elezioni rappresentano senza dubbio un test importante in vista dell’appuntamento dell’8 giugno.

La scelta della Premier di approfittare del vantaggio nei sondaggi non è certo una novità nella politica britannica, anche se i precedenti scioglimenti anticipati voluti dalla Thatcher e da Blair erano avvenuti dopo quattro anni di legislatura.

Se le previsioni saranno confermate, la Premier May oltre a rafforzare la propria maggioranza, garantirsi un margine di manovra più ampio nelle trattative sulla Brexit e rinviare le elezioni future al 2022, potrebbe anche raggiungere un ulteriore obiettivo, quello di affossare definitivamente il debole leader del partito laburista Jeremy Corbyn, il quale, alla guida del Labour party dal 2015, è poco sostenuto dal suo partito parlamentare. Si ricorda che, a seguito del referendum sulla Brexit, Jeremy Corbyn era stato sfiduciato dalla maggioranza dei suoi deputati la quale lo aveva accusato di non aver saputo assumere un ruolo di rilievo nel corso della campagna referendaria. Corbyn era tuttavia riuscito a farsi rieleggere, nel settembre 2016, con il forte sostegno dalla base del partito, ma tale rielezione non ha posto fine ai contrasti interni. Molti osservatori prevedono che le elezioni dell’8 giugno potrebbero porre fine in anticipo all’incerta guida del leader e ritengono, cinicamente, che i deputati del partito laburista hanno votato a favore dello scioglimento anticipato, pur consapevoli della sconfitta che li attende alle urne, solo per liberarsi definitivamente di Corbyn e avere altri 5 anni di tempo per trovare una nuova guida[6].

Elezioni e forma di governo

Alcuni osservatori, poi, hanno affermato che la “snap election” voluta dalla Premier ha l’obiettivo di “centralising and consolidating power in the hands of a Conservative Westminster government”[7]. Appare evidente, infatti, che lo scioglimento anticipato della Camera dei Comuni risulta ispirato alla volontà della Premier di rafforzare la sua leadership e di ridimensionare il ruolo del parlamento. Come noto da decenni la dottrina discute in merito alla natura della forma di governo britannica e la maggior parte delle opinioni ha posto l’accento soprattutto sul ruolo egemone svolto dal Primo Ministro (“Prime Ministerial Government” o “Presidential Government”) o sulla centralità del Consiglio di Gabinetto come sede decisionale (“Cabinet Government”). Tuttavia, già durante l’esperienza del governo Brown, e maggiormente a partire dal 2010, il ruolo del parlamento e il suo rapporto con il governo hanno conosciuto alcune novità. In particolare dal 2010, l’inusuale situazione di un hung parliament e di un esecutivo di coalizione ha avuto l’effetto di ridurre la posizione del Premier e di rafforzare non solo la collegialità del Gabinetto, ma anche il ruolo del parlamento come sede decisionale[8]. Durante la precedente legislatura alcuni episodi hanno mostrato l’autonomia dei Comuni nei confronti dell’esecutivo (ricordo, ad esempio, la sconfitta parlamentare subita dal governo, nell’agosto 2013, sulla mozione relativa alla guerra in Siria). Una autonomia che si è consolidata anche grazie alla collaborazione trasversale che i backbenchers sono riusciti a instaurare tra loro, in parte anche attraverso il Backbench Business Committee il quale ha favorito il dialogo tra i deputati dei diversi partiti, spesso apparsi più liberi dall’obbligo di seguire le direttive dei rispettivi gruppi di appartenenza.

Proprio la presenza di un esecutivo “bicefalo” aveva spinto nel 2011 all’approvazione del Fixed-term Parliaments Act, la legge che – nelle intenzioni dei proponenti – avrebbe dovuto togliere al Premier il potere di scioglimento anticipato dei Comuni e contribuire a “blindare” la maggioranza di governo per l’intera durata della legislatura, evitando che, forte dei sondaggi, Cameron decidesse di sciogliere anticipatamente ponendo fine anzi tempo all’esperienza della coalizione.

A seguito delle elezioni del 7 maggio 2015, che hanno portato alla vittoria della maggioranza assoluta del partito conservatore, il modello Westminster avrebbe potuto riprendere a funzionare secondo modalità più tradizionali. Tuttavia la sottile maggioranza ottenuta dal partito conservatore e, soprattutto, le profonde divisioni interne allo stesso in tema di referendum sulla Brexit non hanno consentito al Premier Cameron di muoversi in modo autonomo dal suo partito, tanto che la ritrovata centralità decisionale del parlamento è sembrata proseguire in più occasioni.

Bisogna aggiungere poi che l’evoluzione del tradizionale modello Westminster in senso più elastico e pluralistico, con una nuova centralità parlamentare, è stata sollecitata anche dal ruolo di indispensabile policy actor del sistema costituzionale britannico assunto dalla Camera dei Lords negli ultimi anni, soprattutto a partire dal 1999[9].

La May, quindi, ha ereditato una situazione segnata da un nuovo equilibrio nei rapporti tra parlamento e governo e da un partito diviso sulla Brexit, che rappresenta attualmente il tema centrale della politica britannica. Un ulteriore colpo alla posizione egemone del governo è venuto poi dalla sentenza Miller del gennaio 2017 con la quale la Corte suprema ha imposto il voto parlamentare sull’attivazione dell’articolo 50, non riconoscendo al governo la prerogativa di muoversi senza il consenso dell’assemblea.

Appare possibile affermare allora che la Premier attraverso questo scioglimento anticipato si sia posto l’obiettivo di far virare rapidamente la forma di governo verso il tradizionale modello Westminster a predominio del Primo ministro, facendo rientrare nei ranghi il ruolo del parlamento. E’ quanto emerge dal discorso della May del 18 aprile nel quale ha affermato che “Britain needed certainty, stability and strong leadership” e che la stabilità del Paese era minata dalle opposizioni. Un’affermazione che ha sollevato molte critiche da parte di coloro che hanno accusato la Premier di voler mettere un bavaglio all’opposizione e impedirle di svolgere il suo ruolo costituzionale. La May è stata paragonata da alcuni organi di stampa al Presidente Erdoğan e la sua analisi è stata considerata distante dalla realtà, dato che le divisioni nel parlamento da lei denunciate appartengono alla natura stessa del parlamento e sono fisiologiche a tutti i sistemi democratici. Né, si rileva, tali divisioni hanno bloccato l’approvazione dell’European Union (Notification of Withdrawal) Act 2017. Durante l’iter del disegno di legge ai Comuni, infatti, gli emendamenti presentati dalle opposizioni erano stati facilmente respinti, tanto che il testo originale voluto dall’esecutivo è stato approvato da una ampia maggioranza (494 a 122), nonostante il fatto che molti deputati conservatori si erano schierati a favore del Remain. Durante l’esame alla Camera dei Lords, poi, i Pari erano riusciti a introdurre due emendamenti che garantivano i diritti di residenza dei cittadini europei che vivono nel Regno e che conferivano al parlamento il potere di veto sul futuro accordo sulla Brexit a conclusione dei negoziati. Le due modifiche sono state però respinte dai Comuni e i Lords hanno rispettato la volontà della Camera elettiva approvando l’asciutto testo dell’European Union (Notification of Withdrawal) Act così come voluto dal governo[10].

Emblematica della lettura “presidenziale” dei poteri del Premier sostenuta dalla May appare la sua interpretazione del Fixed-term Parliaments Act. La legge, come abbiamo detto, era stata introdotta per sottrarre al Premier il potere di sciogliere in modo arbitrario la Camera dei Comuni, scegliendo il momento più favorevole al suo partito per indire nuove elezioni. Il legislatore aveva pensato di ottenere tale risultato imponendo tassativamente due sole ipotesi in cui potesse essere richiesto lo scioglimento: la prima si lega ad un voto a maggioranza qualificata dei 2/3 della Camera dei Comuni sulla mozione: “That there shall be an early parliamentary general election”; la seconda riguarda il caso in cui, a seguito di un voto di sfiducia nei confronti dell’esecutivo, la Camera dei Comuni non riesca, entro 14 giorni, a trovare un accordo sulla formazione di un nuovo governo. Che la legge fosse diretta a circoscrivere il potere del Premier era emerso chiaramente dalle parole con cui nel 2010 Cameron aveva commentato la presentazione del bill. Egli, infatti, aveva affermato di essere “the first prime minister in British history to give up the right unilaterally to ask the Queen for a dissolution of Parliament” e aveva definito la riforma “a huge change in our system, it is a big giving up of power. Others have talked about it, people have written pamphlets and made speeches about fixed-term parliaments, I have made that change. It's a big change and it is a good change”. La discussione sul disegno di legge aveva coinvolto anche i principali costituzionalisti del Paese e il dibattito parlamentare era stato molto animato. La dottrina aveva giudicato la legge come una importante limitazione del potere del Premier[11] e una modifica sostanziale della “majoritarian traditions of government in the UK” che aveva trasformato lo scioglimento in “an instrument of last resort”[12]. Le conseguenze della legge erano state considerate così rilevanti che nel testo – anche su insistenza dei Lords - era stata introdotta anche una “sunset clause” [sec. 7 (4) (a)] che prevedeva l’istituzione nel 2020 di un “committee to carry out a review of the operation of this Act and, if appropriate in consequence of its findings, to make recommendations for the repeal or amendment of this Act”. Alcuni autori avevano pure ipotizzato che la legge sarebbe stata abrogata non appena fosse stato eletto un nuovo governo di maggioranza.

Di fatto nessuna modifica o abrogazione è stata necessaria[13], perché ancora una volta nel Regno Unito la political constitution basata su decenni di convenzioni ha prevalso sulla legal[14]. Nella sua prima concreta applicazione il testo della legge è stato interpretato dalla May, infatti, allo stesso modo in cui la convenzione dello scioglimento anticipato era stata applicata fino al 2011, come un potere – cioè - usato dal Primo ministro per scegliere il momento più opportuno per indire nuove elezioni. Appare condivisibile allora la lettura data dal Renwick[15], secondo il quale la legge del 2011 ha solo modificato “the choreography” necessaria a ottenere lo scioglimento anticipato, ma non la sostanza, vale a dire “the underlying pattern of power” tornato saldamente nelle mani del Premier.

La May tra le due strade previste dalla legge ha preferito percorrere quella di far votare dai 2/3 della Camera la mozione sull’autoscioglimento ed il risultato del voto del 19 aprile è stato quasi “bulgaro”, 522 a favore e 13 contrari. Un dato che evidenzia come le opposizioni, ad eccezione dello SNP che si è astenuto, hanno votato a favore nel timore che un loro voto contrario potesse essere letto dai cittadini come la paura di andare alle urne.

La May quindi, se da un punto di vista formale ha rispettato il disposto della legge del 2011, da un punto di vista sostanziale ne ha stravolto il significato. E del resto anche nell’esperienza canadese, dove esiste una legge sulla durata fissa del parlamento (pur senza ipotesi tassative per lo scioglimento), il potere del Premier di richiedere lo scioglimento anticipato della Camera dei Comuni non è stato mai considerato limitato, come chiarito anche dalla Corte suprema nel caso Conacher v. Canada (Prime Minister) del 2009[16].

Infine è possibile ipotizzare che la forte leadership auspicata dalla May possa servirle anche a contrastare le spinte indipendentiste emerse in Scozia e in Irlanda del Nord. Il partito nazionalista scozzese dovrà cercare di ripetere l’exploit delle elezioni del 2015 in cui era riuscito a vincere 56 dei 59 seggi scozzesi di Westminster. La posta in gioco è in questo caso più alta, perché il governo e il parlamento scozzese hanno richiesto a Westminster di poter tenere un nuovo referendum sull’indipendenza tra l’autunno del 2018 e la primavera del 2019. In Nord Irlanda, poi, le elezioni per l’Assemblea di Stormont del 3 marzo scorso non hanno risolto la situazione di stallo che le Contee del Nord vivono dal mese di gennaio 2017 quando è caduto il governo Foster. Le elezioni anticipate di Westminster sono state viste come una possibile causa di rallentamento nella definizione del processo di formazione di un nuovo esecutivo powersharing, e uno strumento surrettizio per giungere al risultato di tornare alle urne o, addirittura, di reintrodurre la direct rule.

In attesa di vedere se la richiesta di una “stronger leadership” da parte della May sarà raccolta, e in quale misura, dall’elettorato, rimane da chiedersi se nella complessa situazione in cui si trova il Regno Unito dopo il referendum sulla Brexit, con il rischio di un “break-up”, il fattore di cui il Paese ha bisogno sia veramente la “stronger leadership”. Appare pienamente condivisibile, infatti, quanto affermato da Jeff King, vale a dire che il Regno Unito ha bisogno piuttosto di “a stronger Parliament, one that evinces a measure of political pluralism and which takes evidence, listens and reports on a broad range of related issues. Only then can the multifaceted nature of the many problems Brexit will engender both nationally (with respect to the devolved governments for a start) and internationally get a proper inspection. What the Prime Minister refers to as ‘instability’ is in fact how a parliamentary democracy is meant to function”[17].

 

 


[1] A partire da Lloyd George (1916) 11 Primi ministri sono andati al potere senza vincere le elezioni, ma sostituendo il leader in carica. Sul punto si rinvia a B. Whorthy, Ending in Failure? The Performance of ‘Takeover? Prime Ministers 1916-2016, in The Political Quarterly, 2016, 509, secondo il quale i dati relativi all’ultimo secolo mostrano una tendenziale debolezza dei c.d. “takeover prime ministers” rispetto a quelli che hanno vinto le elezioni alla Camera dei Comuni. Si veda anche B. Worthy, Theresa May’s snap election: historic or Pyrric?, in blogs.lse.ac.uk, 18 april 2017.

[2] M. Volpi, Lo scioglimento anticipato del parlamento e la classificazione dei regimi contemporanei, Maggioli, Rimini, 1983, 23.

[3]  Department for Exiting the European Union, The Rt Hon David Davis,  The United Kingdom’s exit from and new partnership with the European Union White Paper, 2 February 2017,

[4] Nel 2011 era stata approvata una modifica che aveva portato alla riduzione dei parlamentari da 650 a 600. La riforma non è stata ancora attuata per le difficoltà incontrate nella definizione dei nuovi collegi elettorali. Pertanto, anche per queste elezioni, la Camera continuerà ad avere 650 deputati. In merito alla complessa applicazione della riforma del 2011 relativa alla riduzione del numero dei parlamentari si rinvia a R. Johnston, D. Rossiter, C. Pattie, When Is a Gerrymander Not a Gerrymander: Who Benefits and Who Loses from the Canged Rules for Defining Parliamentary Constituencues?, in The Political Quarterly 2017, 1.

[5] R. Pennisi, Cosa c’è dietro la scelta elettorale di Theresa May, in Aspenia online, (www.aspeninstitute.it) 22 aprile 2017.

[6] E. Goes, As electoral disaster looms, Labour should start preparing for the post-Corbyn era in blogs.lse.ac.uk, 20 april 2017.

[7] S. Swan, Joint Sovereignty? The implications of a snap election for Northern Ireland, in blogs.lse.ac.uk, 18 april 2017.

[8] M. Bennister, R. Heffernan, The Limits to Prime Ministerial Autonomy: Cameron and the Constraints of Coalition, in Parliamentary Affairs, 2015, 25.

 

[9] Al fine di non acuire i contrasti con la Camera dei Lords il governo May, nel dicembre 2016, ha definitivamente rinunciato ad attuare la proposta di riduzione dei poteri dei Lords nel controllo della legislazione delegata, secondo il progetto contenuto nel rapporto presentato, nel dicembre 2015, da Lord Strathclyde al governo Cameron, e sostenuto da quest’ultimo.

[10] La May ha comunque promesso di far esprimere il parlamento sul futuro accordo che sarà raggiunto con l’Unione. Peraltro, se come probabile tale accordo prenderà la forma di trattato internazionale sarà obbligata a farlo dal disposto del Constitutional Reform Act 2010.

[11] M. Bennister, R. Heffernan, Cameron as Prime Minister: The Intra-Executive Politics of Britain’s Coalition Government, in Parliamentary Affairs 2012, 778; R. Youngs, N. Thomoas-Symonds, The Problem of the ‘Lame Duck’ Government: A Critique of the Fixed-term Parliaments Act, in Parliamentary Affairs, 2013, 540; P. Scheleiter, S. Issar, Fixed-term Parliaments and the Challenges for Governements and the Civil Service: A Comparative Perspectives, in The Political Quarterly, 2014, 178; C. Haddon, The (Not So) Fixed-term Parliaments Act, www.instituteforgovernment.org.uk, 14 april 2015; M. Bennister, R. Heffernan, The Limits to Prime Ministerial Autonomy: Cameron and the Constraints of Coalition, in Parliamentary Affairs, 2015, 25; P. Schleiter, How the Fixed-term Parliaments Act Changes UK Politics, in Parliamentary Affairs, 2016, 1; P. Norton, The Fixed-term Parliaments Act and Votes of Confidence in Parliamentary Affairs, 2016, 3; A. Blick, Constitutional Implications of the Fixed-Term Parliaments Act 2011, in Parliamentary Affairs, 2016, 19; P. Schleiter, V. Belu, The Decline of Majoritarianism in the UK and the Fixed-term Parliaments Act, in Parliamentary Affairs, 2016, 36; J. King, May’s Gambit, in U.K. Const. L. Blog,19th Apr 2017.

[12] O. Gay, P. Scheleiter, V. Belu, The Coalition and the Decline of Majoritarianism in the Uk, in The Political Quarterly 2015, 121 s.

[13]Ibid.

[14] P. Reid, How Fixed Is a Fixed-term Parliament?, in U.K. Const. L. Blog (20th Apr 2017)

[15] A. Renwick, The Fixed-term Parliaments Act and the snap election, The Constitution Unit blog, 18 april 2017.

[16] A. Heard, Conacher Missed the Mark on Constitutional Conventions and Fixed Election Dates, in  Constitutional Forum constitutionnel, 2010, 129; R. E. Hawkins The Fixed-Date Election Law: Constitutional Convention or Conventional Politics?, in Constitutional Forum constitutionnel, 2010, 129.

[17] J. King, May’s Gambit, in U.K. Const. L. Blog, 19 April 2017.