di Giuseppe Franco Ferrari

La convocazione delle elezioni politiche da parte della premier britannica May poteva sorprendere solo chi ha scarsa conoscenza delle istituzioni britanniche. In realtà questa mossa si inquadra perfettamente nella linea del funzionamento della forma di governo, come modificata nel 2011. La modificazione, pur dettata da contingenze politiche, è stata accuratamente studiata dal ceto di governo o almeno dalla maggioranza del tempo, e le principali forze partitiche hanno dimostrato alla prima occasione di  averne assimilato prontamente il senso.

Come è stato ricordato da molti, il Fixed Term Parliament Act  era stato concordato tra Conservatori e Liberali, o meglio imposto dai secondi ai primi, come clausola di salvaguardia intesa a prevenire eventuali fughe in avanti di Cameron, che avrebbe potuto mettere fine al Governo di coalizione nel momento in cui avesse percepito dai sondaggi di disporre nel Paese di una maggioranza sufficientemente ampia per governare da solo. Il senso dell’Act era dunque quello di introdurre una stabilizzazione dell’Esecutivo con la durata bloccata delle legislature, con due sole deroghe: quella dello scioglimento autodecretato a maggioranza di due terzi dei Comuni e quello della crisi aperta e non richiusa entro due settimana dalla sfiducia con l’investitura del nuovo Governo.

La premier si è dunque avvalsa di uno strumento che il suo predecessore aveva accettato, o forse subito, in un particolare contesto politico, mettendolo al servizio di una situazione allora imprevedibile e forse inimmaginabile fino a pochi mesi fa. Evidentemente cerca di sfruttare due nuove situazioni. Da un lato, la debolezza dello storico avversario laburista, dovuta a cause profonde e alla più recente leadership di Jeremy Corbin, tale da indurre molti osservatori a credere che i Conservatori possano conseguire una landslide victory. Dall’altro, e per quanto qui più interessa sul terreno europeo, la May può avere pensato di dover gestire Brexit in condizioni di forza e tranquillità, magari sgombrando il campo da difficoltà interne, oltre che da quelle di un’opposizione peraltro divisa al suo interno. La definizione delle modalità di uscita dall’Unione Europea e di ridefinizione di interi settori del diritto domestico dopo la caduta dei vincoli derivanti da principi europei e normative di dettaglio richiederà anni di lavoro, nonostante la guida sicura di un Giudiziario che ha dato ampie prove di padroneggiare appieno le tematiche di diritto costituzionale. Contare su una maggioranza ampia e ricompattata potrebbe essere il viatico ideale. Ma le incognite di una simile scommessa sono molte, forse troppe.

I cleavages interni allo stesso partito Conservatore metteranno a dura prova il vertice. Imporre solo candidati filo-Brexit non sarà facile. E lo stesso elettorato darà la prevalenza a valutazioni di politica locale o terrà presenti le tematiche europee, al momento di esprimersi in una elezione politica che potrebbe presentarsi come la prova di appello del referendum? Potrà, inoltre, il corpo elettorale ignorare le tendenze filo-europee di Scozia e Irlanda del nord, che possono mettere a repentaglio la stessa struttura del Regno Unito?

La situazione è, per gli osservatori continentali e non solo, molto intrigante. Andrà seguita di mese in mese con attenzione, tenendo conto anche delle prime mosse nel distacco dall’Unione. Cameron commise un errore storico nell’indire il referendum sull’Europa con molto anticipo, oltre che senza stabilirne con chiarezza natura ed effetti. Nonostante  la debolezza degli avversari, non è detto che, pur su di un arco di tempo più breve, la capacità previsionale della Premier non si imbatta in qualche imprevisto.