di Giuseppe Franco Ferrari

La decisione della Corte Suprema mette fine al contenzioso e al tempo stesso apre una nuova pagina politica dalla conclusione imprevedibile, considerato che il rigetto del ricorso governativo e le posizioni anti-europee, sia nel merito che nella dinamica del ritiro,  assunte dalla premier May dischiudono scenari incerti e interamente rimessi a valutazioni parlamentari di difficile controllabilità dal Governo.

Col senno di poi, si può ben dire che confermare la sentenza della High Court era di gran lunga più facile che riformarla. La fattura della decisione di primo grado era di tale qualità, che l’approfondimento e la ricostruzione dei principi costituzionali non si prestavano ad un agevole rovesciamento. La conferma della prima sentenza, però, non è stata né pedissequa né stereotipa, ma aggiunge pagine di grande pregio a quanto scritto dai giudici della High Court. Per molti aspetti la Supreme Court si comporta qui come un giudice costituzionale, non solo per il tono di chi svolge un ruolo “umpiring” in una sorta di conflitto di attribuzione, ma anche per la capacità di maneggiare principi costituzionali e di trattarli esplicitamente come tali. Quest’ultima non è una novità assoluta, considerata la propensione della House of Lords e del Privy Council prima e della Supreme Court dopo il 2005 a cimentarsi con tematiche di rango costituzionale. Ora, però, si è in presenza di un vero trattatello di diritto costituzionale, esplicito e disinvolto, nel quale trovano sistemazione principi storici e interpretazione dello statute del 1972, natura composita del Regno Unito, protezione dei diritti di libertà del cittadino britannico. Una sintesi lucida e degna della migliore tradizione giuridica della common law, una lezione per molti giudici costituzionali, di Europa ed oltre, avvezzi da decenni a statuire sui principi.

L’itinerario logico seguito dalla Corte si caratterizza per un nitore argomentativo almeno pari a quello della High Court. Il punto di partenza è che lo European Communities Act del 1972 è la fonte del trasferimento di poteri legislativi all’Unione Europea [par.60-67], oltre che l’atto facoltizzante l’insorgere di aspettative protette dal diritto europeo [par. 69]. Questo presupposto sul terreno storico-sistematico, corredato di considerazioni correlate in termini di teoria delle fonti, porta alla conseguenza inderogabile che, se è pur vero che il Governo può dare corso all’attuazione del diritto europeo con norme non primarie, questa facoltà dinamica, comunque fondata anch’essa su norme primarie, non può implicare o includere la scelta del ritiro dall’appartenenza all’Unione, con conseguente taglio totale della possibilità di entrata nel diritto domestico di norme di origine europea [par. 78-79]. Né, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso governativo, la partecipazione di Ministri alla formazione del diritto europeo può implicare il suo contrario, ovvero la possibilità di mettere fine a tale produzione [par. 95]. Neppure, sul piano letterale, la disciplina legislativa del 1972 include espressioni che possano avallare una simile interpretazione. E, sul piano sostanziale, i meccanismi storici di responsabilità ministeriale davanti al Parlamento a nulla varrebbero una volta che il recesso sia stato esercitato, con una sorta di pre-emption di prerogative parlamentari da parte del Governo [par.92]. Tanto più in quanto vi sarebbero ricadute su diritti dei cittadini britannici fondati sull’ordinamento europeo [par. 69]. In sintesi, la costituzione britannica impone che cambiamenti di portata così significativa siano operabili solo per via di legislazione [par.82].

Il voto referendario determinato da uno statute che non ne ha specificato le conseguenze e la risoluzione della House of Commons del 7 dicembre 2016 sono così riportati ad una dimensione puramente politica [par. 116 ss.]. A questo approccio non si sottrae neppure Lord Carnwath, che, pur sottoscrivendo l’opinion dissenziente redatta da Lord Reed, non si sottrae alla conclusione che l’intervento legislativo del Parlamento debba comunque avere luogo, seppure a valle di un processo politicamente connotato di trattative condotto dal Governo sotto la propria responsabilità [par.259].

Il cosiddetto devolution issue è assai meno problematico per la Corte, che infatti lo risolve all’unanimità. La politica estera, ed in particolare le relazioni con l’Unione Europea, non costituisce materia devoluta, per cui appartiene solo al Parlamento di Westminster la decisione circa la perdurante appartenenza del Regno Unito all’UE, ad esclusione sia dei parlamenti regionali che del Segretario di Stato per l’Irlanda del Nord. Ai primi, in particolare, non spetta alcun diritto di veto. Del pari irrilevante è la circostanza che la legislazione devolutiva sia stata adottata in costanza di appartenenza del Regno Unito alle Comunità europee, circostanza di mero fatto che come tale non produce effetti vincolanti per il Parlamento nazionale [par.129-151].

Il Miller Case è decisamente la punta più avanzata e consapevole del costituzionalismo britannico. La Corte vi opera una sintesi completa e approfondita delle tematiche della forma di Stato e di quella di governo. La riflessione sul rapporto tra entità sovranazionali e articolazioni interne di un ordinamento statale ormai pacificamente composito ha ovvie ricadute sul rapporto tra Parlamento e Governo. Tutta la ricostruzione è compiuta in chiave di raccordo con i precedenti, nella tradizione tipica del common law, ma è anche questa prospettiva orientata alle radici storiche a valorizzare la dimensione costituzionalistica, in certo modo esaltata dal richiamo al case law e dalla ricerca di una continuità che ovviamente è non un proxy ma l’alternativa della costituzione formale.

É in certo modo paradossale che una circostanza divisiva, almeno sul terreno delle relazioni sovranazionali, come Brexit, offra all’organo di vertice del Giudiziario britannico l’occasione per applicare in forma concentrata l’analisi più esaustiva della storia costituzionale inglese sul terreno del diritto costituzionale, in certo modo unificando concettualmente principi elaborati in precedenza in forma meno organica. Gli appuntamenti della storia, d’altronde, hanno (anche) il senso di forzare riflessioni che diversamente richiederebbero, per sedimentarsi, tempi più lunghi. Questo, almeno, negli ordinamenti che abbiano un’identità forte e consapevole; meno, forse, in quelli con connotazioni identitarie meno radicate. Nei primi, tappe come questa vengono affrontate senza indulgenza verso i populismi. Dovrebbero insegnare  qualcosa la serenità, la chiarezza espositiva e la limpidezza argomentativa con cui la Supreme Court affronta magistralmente problemi di vertice dell’ordinamento, indifferente alle critiche che molta stampa aveva mosso alla decisione della High Court. Un’altra lezione dalla comparazione per i problemi di casa nostra.