di Ginevra Cerrina Feroni

Le presidenziali francesi 2017 saranno ricordate, specialmente, per una parola: “rischio-populismo”. Un vero e proprio mantra, ripetuto ossessivamente da politici e mezzi di comunicazione di mezza Europa. Tutta la campagna elettorale è stata, infatti, caratterizzata da un unico obiettivo: neutralizzare il populismo del Front National e sventare il rischio di Marine Le Pen all’Eliseo. Operazione riuscita, ma l’esito era scontato.

Aldilà del risultato di questa partita, le domande che dobbiamo porci sono due: è stata messa, definitivamente, una pietra tombale sul progetto lepenista per la Francia? E, più in generale, è corretto associare, in modo automatico, il populismo del Front National ad un pericolo grave per la democrazia?

Sulla prima questione, va riconosciuto che Marine Le Pen, pur risultata perdente nel ballottaggio, ha ottenuto un risultato in termini di voti oltremodo significativo e assolutamente impensabile solo qualche anno fa. Il suo consenso è cresciuto costantemente nel corso del tempo. Sia per la profonda trasformazione da lei condotta all’interno del partito fondato dal padre Jean Marie, trasformazione tutt’ora in corso, che potrebbe addirittura condurre al cambiamento dello stesso nome; sia per l’attenta e mirata strategia di comunicazione all’esterno (si consideri, ad esempio, che il Front National guidato da Marine Le Pen è stato il primo partito francese a comparire sul web, a metà degli anni Novanta: lo ricorda, C. Vaccari, La politica online: Internet, partiti e cittadini nelle democrazie occidentali, Il Mulino, 2012). Ma evidentemente non è solo questione di buon marketing o di un restyling di immagine. I dati parlano chiaro. Il Front National ha intercettato circa il 40% per cento del voto operaio francese in un contesto complessivo di grave crisi economica e di forte disoccupazione. Dati che non possono essere liquidati come espressione di un mero voto di protesta o di un elettorato retrogrado e nostalgico. Le soluzioni proposte dalla Le Pen, ovvero tutela della identità francese, protezionismo economico, possibile uscita dall’Unione europea, espulsioni immediate di sospetti terroristi  potranno essere valutate anche estreme, ma sono comunque risposte politiche a problemi reali che la Francia sta vivendo. Del resto l’importante affermazione personale di Emmanuel Macron e del suo movimento “En Marche” alle presidenziali non significa anche che ci saranno in Francia, nei prossimi 5 anni, le condizioni per governare stabilmente il Paese. Bisognerà infatti attendere gli esiti delle elezioni politiche per capire gli equilibri e gli scenari che si verranno a determinare. I pronostici, ad oggi, danno ad un quadro abbastanza variegato, nel quale è ragionevole ipotizzare quantomeno una pattuglia significativa di deputati lepenisti nella futura Assemblea Nazionale. Ed è ragionevole pure ipotizzare che la progressiva “dédiabolisation” del Front Nationale possa portare ulteriori frutti in termini di riduzione del suo storico isolamento politico, come già comprovato dall’accordo con il partito neogollista di Nicolas Dupont-Aignan intervenuto in occasione del ballottaggio per le presidenziali.

Quanto alla seconda questione, partiamo col dire che il concetto di populismo è tutt’altro che chiaro. Sappiamo che, storicamente, esso si colloca nella Russia zarista di fine ‘800 e lo si qualifica come quel movimento che cercava di ottenere il miglioramento delle classi più povere ed emarginate. Tuttavia, una volta che lo si astrae dal suo contesto originario, sono a dir poco sfuggenti gli elementi che lo costituiscono. A partire dalla sua definizione. E’ una ideologia, un sistema di pensiero, una visione del mondo? Oppure è soltanto uno stile, un modo di parlare “alla pancia della gente”, appunto lo stile populista?

Su ciò si interrogano da anni storici, filosofi, politologi, sociologi, senza peraltro arrivare a risultati condivisi. Probabilmente perché non esiste un’unica risposta. Potrebbe infatti trattarsi – come sostenuto da un autorevole studioso del tema (M. Tarchi,  Italia populista, Il Mulino, 2015) – di una specifica “mentalità” compatibile con diversi contenuti ideologici e, di conseguenza, adattabile a forze politiche estremamente lontane tra loro, sia di destra come di sinistra (come pure a forze politiche non specificamente caratterizzate).

Questa adattabilità/versatilità starebbe alla base, appunto, dei numerosi fenomeni di populismo che sono dati rinvenire nella storia più o meno recente.

Seguendo questa impostazione, tra gli elementi indefettibili della mentalità populista, vi sarebbero: 1) una concezione di popolo come comunità omogenea dotata di qualità etiche. Una società civile fatta, soprattutto, di gente comune, di persone normali dotate di buonsenso e di etica del lavoro; 2) una rappresentazione della classe politica, al contrario, come incapace e, tendenzialmente, corrotta; 3) l’idea che il popolo sia l’unica fonte legittima del potere, che si esercita anche tramite strumenti di democrazia diretta (esempio il referendum), o comunque con vincoli stretti tra rappresentanti e rappresentati (come il mandato imperativo).

E’ di tutta evidenza che il populismo può presentare seri rischi quando tradisce la sua essenza, ovvero degenera in modelli di partecipazione plebiscitaria e, soprattutto, in forme politiche autoritarie, o addirittura totalitarie. Così come sarebbe una ipocrisia demonizzare la classe politica nella sua interezza come incapace e corrotta e contrapporre ad essa, idealizzandola, una società civile virtuosa ed eticamente irreprensibile. Vero è, infatti, che ogni società ha la classe politica che si merita. 

Ciò detto, la vulgata che condanna senza appello il concetto di populismo, e l’uso che del populismo ha fatto il Front National, è in sé contraddittoria.

Dove sarebbe il pericolo per la democrazia? Appellarsi al popolo, coinvolgerlo, renderlo protagonista - e non più solo spettatore passivo - nella gestione della decisioni fondamentali che riguardano la res publica, si chiama, guarda caso, democrazia. Dare priorità agli interessi del popolo, dare voce ai suoi bisogni (e alle sue speranze) anziché a quelli di una ristretta élite di privilegiati si chiama, guarda caso, ancora democrazia. Del resto cospicue aperture al “populismo” possono essere rintracciate proprio negli stessi enunciati costituzionali di ordinamenti democratici. Emblematica la Costituzione francese all’art. 2, co. 5 che enuncia il principio fondante la Repubblica: “governo del popolo, dal popolo e per il popolo”, e all’art. 3 “La sovranità appartiene al popolo (…)”. Un popolo, dunque, come principio, origine, asse fondante di tutta l’architettura costituzionale.

In questa rinnovata esigenza di centralità del popolo vi sono, dunque, elementi positivi: un popolo che vuole esserci, contare, decidere. Il che non è affatto in contrasto con i principi classici della democrazia rappresentativa, su cui si fondano tutte le società complesse.

Non facciamo, dunque, l’errore di stigmatizzare - come sovente accade in alcuni chic ambienti intellettuali e come abbiamo assistito durante tutte le presidenziali francesi - l’idea di un popolo che vuole fare sentire la propria voce. Sotto questo profilo il populismo può giocare, e sta giocando,  un ruolo molto importante, di democratizzazione del sistema. Che si può concretizzare, appunto, in una maggiore partecipazione alle decisioni politiche fondamentali e in forme più stringenti di rappresentanza politica.

Esigenza oltremodo sentita, soprattutto dopo che per anni abbiamo assistito, in Francia (come in Italia), ad un processo di distacco dei partiti rispetto alla società, ad un loro appiattimento sulla gestione del potere, alla perdita di riferimenti ad idealità e valori. Una pericolosa autoreferenza del ceto politico che è stata speculare al declino della partecipazione civile. Una estraneità di intere parti della società dalla vita delle istituzioni.

Per questi motivi il populismo può servire anche per invertire la rotta.

E sarebbe un errore di valutazione pensare che esso sia un fenomeno transitorio. Al contrario esso è dato in ascesa, sia a destra come a sinistra, un po’ ovunque, come dimostra il caso francese. Non c’è da stupirsi, né tantomeno da scandalizzarsi. I temi classici del populismo di oggi, ovvero l’antieuropeismo e l’immigrazione, sono infatti temi molto seri e devono essere affrontati con massimo senso di responsabilità. Perché - come è stato rilevato (v. C. De Fiores, L’Europa al bivio, Ediesse, 2012) - per la prima volta dalla sua fondazione, il fallimento dell’Unione Europea non è più soltanto un’ipotesi immaginaria. Nell’arco di poco tempo, tutte le ambiguità e tutte le contraddizioni del processo di integrazione sono venute allo scoperto: un’unione politica senza politica, una moneta senza Stato, una democrazia senza demos. L’Europa si trova di fronte a un bivio: continuare a essere un luogo opaco di intese tecnico-normative (fra élites, giudici, poteri economici, lobbies finanziarie, governi), oppure voltare pagina, provando a rifondare, ma davvero ex novo, e finalmente su basi democratiche, il processo di integrazione.

I segnali politici e sociali che arrivano da tutta Europa sono inequivocabili: è finito il tempo delle retoriche europeiste di maniera. La politica europea sull’immigrazione ne è una delle pagine più evidenti. E forse anche una delle più brutte.

Ecco perché la partita francese è così importante. Da un lato, perché ha sdoganato il populismo, quantomeno nello stile comunicativo. Anche la campagna presidenziale del nuovo inquilino dell’Eliseo è stata, infatti, giocata su messaggi densi di contenuti antipolitici e antipartitici, tipici del populismo. Dall’altro perché, invece, metterà alla prova la forza politica del nuovo Presidente nel passare dai meri slogan europeisti – simboliche le note dell’Inno alla Gioia che hanno preceduto il suo ingresso nella Piazza del Louvre dopo la vittoria – alle azioni concrete di riforma dell’Europa non più procrastinabili. Vedremo se Monsieur Macron sarà capace - come ha dichiarato non appena eletto - di eliminare le ragioni che hanno condotto oggi una parte consistente dei cittadini francesi a scegliere di seguire il progetto politico di Madame Le Pen.