di Mauro Volpi

Mi pare che la reazione di vari commentatori alle elezioni presidenziali francesi sia di questo tipo: per fortuna in Francia c’è l’elezione popolare del Presidente che svolge una funzione di stabilizzazione e potrebbe riflettersi sull’esito delle elezioni dell’Assemblea Nazionale. Questa vulgata merita di essere sottoposta a due forti rilievi critici.

In primo luogo essa sottovaluta le profonde novità di questa elezione presidenziale. Le metto sinteticamente in fila:

  1. Per la prima volta (a parte il precedente di Pompidou deceduto nel 1974) il Presidente uscente non si è ripresentato, segno evidente del discredito in cui è precipitato.
  2. Per la prima volta sono rimasti fuori dal ballottaggio i candidati dei due partiti che avevano contrassegnato la storia della V Repubblica (nel 2002 era stato eliminato solo il candidato socialista). Quella che Duverger aveva originariamente definito “quadriglia bipolare”, poi progressivamente trasformatasi in un bipolarismo egemonizzato da due partiti nettamente più forti, si è trasformata in una quadriglia pura e semplice.
  3. Sono stati eliminati al primo turno i due candidati scelti con elezioni primarie, al secondo turno delle quali hanno partecipato (sarà bene per noi italiani tenerlo a mente) 4.298.097 elettori per quelle della droite e 2.046.628 per quelle della gauche (per chi si vuole esercitare in comparazioni Fillon ha avuto 2.919.874 voti e Hamon 1.181.872).
  4. La Francia risulta nettamente spaccata in due dal punto di vista sociale (ceti disagiati/ceti medio-alti) e geografico (città/campagne, Est/Ovest) e quasi la metà dei votanti al primo turno hanno espresso posizioni fortemente radicali (di destra o di sinistra).
  5. Il candidato vincente, oltre ad approfittare della debolezza dei partiti tradizionali e dello scandalo che ha ridimensionato la candidatura di Fillon, ha fatto proprie alcune parole d‘ordine classiche della “antipolitica”: attribuzione ai partiti di tutte le negatività nonché della responsabilità di avere diviso i francesi, superamento della distinzione fra destra e sinistra (in Italia diremmo che sono argomenti tipicamente grillini).
  6. Vi è stata la cd. “dediabolisation” del Front National, il cui passaggio al secondo turno non ha prodotto le reazioni che vi erano state nel 1982 (ivi compreso il rifiuto del candidato della destra repubblicana Chirac di accettare il faccia a faccia televisivo con Le Pen padre).
  7. Vi è stato un netto calo della partecipazione alle elezioni, che è stata la più bassa con l’unica eccezione delle elezioni del 1969. Al primo turno ha partecipato il 79,5% degli elettori. Al secondo turno, che in tutte le ultime elezioni (2002, 2007, 2012) ha visto crescere i votanti, la partecipazione è calata al 74,5%. Inoltre vi è stato un numero abnorme di schede bianche e nulle, che sono passate dall’1,78% del primo turno all’8,8% del secondo. In pratica i voti espressi a favore dei due candidati hanno riguardato un po’ meno dei due terzi del totale degli elettori, rispetto al quale Macron ha avuto circa il 44% dei voti e la Le Pen circa il 22%.

Dall’insieme di queste novità risulta una crisi verticale del sistema politico su cui si è retta la V Repubblica, ma anche un crescente distacco fra cittadini e politica e fra cittadini e istituzioni.

Qui viene in gioco la seconda considerazione critica, che riguarda la crisi della Presidenza, vale a dire di quel potere che è stato il più forte fra quelli esistenti nelle democrazie consolidate, potendo cumulare quasi sempre la funzione di Capo dello Stato con quella di Capo effettivo del Governo (che ha fatto parlare della V Repubblica come regime “ultrapresidenziale” per Vedel  e “presidenzialista” per Gicquel). Il problema portato alla luce dagli ultimi tre mandati presidenziali è quello di un Presidente che può contare su un’ampia maggioranza parlamentare e sempre più capo del potere esecutivo, sul quale si riversano enormi aspettative popolari e nel giro di poco tempo si registra un pesante  inarrestabile calo di consensi. Insomma la Presidenza funge non da ostacolo, ma da moltiplicatore al fenomeno del distacco dei cittadini da politica e istituzioni o, detto in altri termini, non è una soluzione del problema del “malessere francese”, ma fa parte del problema.

Ma vi è di più. Come ha sottolineato Duhamel in un testo del 2002, la Francia è l’unica grande democrazia nella quale due sono le elezioni decisive per la formazione del Governo: quella presidenziale e quella parlamentare. Questa anomalia, che sembrava fortemente ridimensionata in seguito alle riforme del quinquennato presidenziale e dell’anticipazione delle elezioni presidenziali rispetto a quelle parlamentari, torna a ripresentarsi dopo le ultime elezioni presidenziali. Non intendo esercitarmi in previsioni di tipo astrologico, ma limitarmi a qualche considerazione. Vi è oggi una grande incertezza sull’esito delle elezioni della Assemblea Nazionale, derivante dal fatto che l’”effetto di trascinamento” derivante dalle elezioni presidenziali non è più scontato, sia per la natura ancora magmatica del movimento di Macron, sia perché la maggioranza di quanti l’hanno votato al secondo turno l’hanno fatto “per mancanza di alternative e non per l’adesione al suo progetto” (così Lazar in la Repubblica del 7 maggio). Non si può quindi escludere nessuna ipotesi: per usare ancora la terminologia di Duhamel, né il “presidenzialismo assoluto” (maggioranza parlamentare filopresidenziale), né il “presidenzialismo razionalizzato” (maggioranza filopresidenziale solo relativa), né il “presidenzialismo neutralizzato” (maggioranza antipresidenziale). Ma soprattutto non si può escludere una quarta ipotesi che Duverger (nel 1974 in La monarchie républicaine giudicava addirittura pericolosa): l’inesistenza di una maggioranza parlamentare, che neppure il sistema maggioritario a doppio turno (dispiaccia o meno) può scongiurare con certezza nell’attuale contesto politico. In questa ipotesi il Presidente potrebbe dare vita ad un governo di coalizione, ma non con alleati minori, com’è avvenuto in passato, ma con partiti consistenti (come ad es. Les Républicains). Ma ciò lo costringerebbe a sbilanciarsi verso destra o verso sinistra e comunque darebbe vita a negoziazioni e a probabile fibrillazioni. Uno scenario questo che sarebbe paradossalmente peggiore di una coabitazione che almeno salvaguarderebbe le identità politiche dei principali attori in campo.

             In conclusione le elezioni presidenziali ci consegnano uno scenario complesso e critico, nel quale il problema non è solo “chi governerà”, ma cosa occorrerà fare per ricostruire il legame fra cittadini e politica e fra cittadini e istituzioni.