di Claudio Martinelli

Davvero in pochi, anche nel Regno Unito, potevano immaginare che la Premier Theresa May stesse accarezzando l’idea di mettere una curiosa sorpresa nell’uovo di Pasqua dei sudditi di Sua Maestà: la dissolution del Parlamento e la convocazione delle General Election per giovedì 8 giugno 2017. Dunque, quando l’annuncio è stato diramato, la mattina del 18 aprile, il Paese è stato percorso da un generale sconcerto, poi ulteriormente ampliato dalla reazione del leader laburista Jeremy Corbyn.

Per stessa ammissione del Primo ministro, si è trattato di una decisione sofferta e meditata. E vi è da crederle visto che per mesi, dopo il suo insediamento a Downing Street, aveva assicurato di non avere alcuna intenzione di procedere in tal senso, ma anzi di voler operare con le istituzioni in carica per ricomporre l’unità della nazione dopo le profonde divisioni determinate dal referendum Brexit.

E allora, di fronte ad uno sviluppo degli eventi così inopinato, il primo interrogativo da porsi per capire la situazione è perché lo abbia fatto. Le motivazioni addotte nel suo statement al Paese sono invero piuttosto paradossali e non riescono a fugare la sensazione che la realtà sia diversa. Secondo la Premier, alla vigilia dell’avvio del negoziato con l’Unione Europea, si assisterebbe ad una discrasia tra un Paese ormai compatto a sostegno del Governo in questa difficile prova e un Parlamento percorso invece da fratture insanabili che rischierebbero di mettere in difficoltà l’Esecutivo, indebolendone il potere negoziale. Tuttavia, le complesse vicende verificatesi nei mesi successivi al referendum raccontano una realtà completamente diversa, se non diametralmente opposta. L’opinione pubblica appare oggi ancora irrimediabilmente spaccata grosso modo a metà come lo fu nelle urne, e anzi con una quota di pentimento nel fronte pro-Leave che sembra sempre più ampia; mentre, al contrario, il Parlamento si è mostrato più che collaborativo con il Governo. L’iter parlamentare della legge di autorizzazione all’attivazione dell’Art. 50 TUE, un passaggio così solennemente imposto dalla recente giurisprudenza delle Corti, si è risolto in un rafforzamento del Primo ministro e del Governo in vista del negoziato, mostrando una Camera dei Comuni fortemente incline, nella maggioranza Tory, ad assecondare l’indirizzo politico del Cabinet e con una opposizione laburista tutto sommato blanda e mai intenzionata a rimettere in discussione il risultato referendario. Quanto ai Lords, è vero che hanno fatto sentire la loro voce approvando due emendamenti di notevole rilievo, ma alla fine hanno responsabilmente rinunciato a insistere nel ping-pong con i Comuni. Risultato: approvazione finale dello European Union (Notification of Withdrawal) Act 2017 nel testo introdotto dal Governo.

Questa pur rapida analisi dei fatti induce a ritenere che la ragione fondamentale alla base della decisione di Theresa May sia di tutt’altra natura. Un calcolo semplice e cinico: il favore accordato al Partito conservatore da tutti i sondaggi condotti nel mese di aprile sulle intenzioni di voto e, correlativamente, un distacco abissale di circa 20 punti rispetto ai Laburisti. Il vero motivo sta tutto in queste aride ma eloquenti cifre. Determinante è stata la presa d’atto della debolezza politica del Partito laburista, incapace di opporre ai Tory una visione della Gran Bretagna alternativa e credibile, guidato da una leadership tanto idealista quanto inconsistente.

L’atteggiamento di Corbyn costituisce il secondo paradosso di questa vicenda. Di fronte al guanto di sfida gettato dalla May in un contesto come quello descritto, avrebbe potuto almeno tentare di logorarne l’azione rifiutandole il voto sulla mozione di scioglimento e costringendola ad intraprendere la strada, densa di incognite, del vote of no confidence del gruppo Tory contro il proprio Gabinetto. Invece, non solo i laburisti hanno votato a favore ma Corbyn ha già impostato la campagna elettorale su una piattaforma pro-Brexit a condizioni più favorevoli per le classi disagiate, senza però tenere conto che al referendum sono state proprio queste ultime a esprimersi in maniera più netta per l’uscita dalla UE, e dimenticando che comunque le modalità concrete con cui verrà sancita la Brexit non dipenderanno tanto da quanto scritto nel Manifesto elettorale di ciascun partito britannico, quanto dal duro confronto con le istituzioni europee. Insomma, un tentato suicidio politico dettato forse dal desiderio di Corbyn di sfruttare l’occasione di guidare il Labour in una early election, mentre se si fosse votato nel 2020, cioè a scadenza naturale, probabilmente avrebbe visto la propria leadership svanire nel frattempo.

Queste singolarità del mondo politico si riflettono anche sul piano più strettamente costituzionale, dove gli aspetti maggiormente interessanti di questa dissolution si ricollegano alla prima applicazione del Fixed-Term Parliaments Act 2011 in relazione ad una early election. E anche in questo ambito non mancano certamente i paradossi. Per coglierne i termini è forse utile ricordare la genesi di quella legge, intimamente legata alle condizioni politiche della legislatura di coalizione 2010-2015, segnata dalla situazione di hung Parliament. La norma fu imposta ai Conservatori dai Liberal Democrats come conditio sine qua non per formare il Coalition Government con Cameron Primo ministro, unitamente alla richiesta di indizione di un referendum sull’introduzione del AV System in luogo del tradizionale FPTP. I due punti del Coalition Agreement perseguivano un evidente progetto di riforma sostanziale della moderna British Constitution: intaccare due aspetti cardine del funzionamento del Westminster Model. Dalla loro combinazione i LibDem speravano di trarre alcuni vantaggi: nell’immediato, impedire ai Conservatori di interrompere anzitempo quella legislatura; medio tempore, attenuare la forza preponderante dei due grandi partiti, ingrandire la consistenza del proprio gruppo ai Comuni, risultare sempre determinanti per formare una coalizione di governo, ridurre la centralità della figura del Primo ministro nel sistema costituzionale per perseguire un riequilibrio a favore della collegialità del Cabinet e degli equilibri parlamentari interni ai partiti sostenitori della maggioranza. Ebbene, oggi è possibile tracciare un bilancio e costatare che quella strategia si è rivelata fallimentare. Il referendum elettorale del 2011 ha visto la netta prevalenza dello status quo; le elezioni del 2015 hanno sancito il ritorno del one party government (oltre al tracollo dei LibDem stessi); gli avvicendamenti al n. 10 di Downing Street continuano ad essere un affare interno al partito di maggioranza e, infine, la previsione giuridica di una durata fissa del parlamento in carica si è rivelata un’illusione, spazzata via dalle convenienze politiche, vere o presunte che si possano rivelare il prossimo 8 giugno.

Proprio questo impietoso bilancio credo debba consigliare una riflessione su un punto molto delicato del diritto costituzionale inglese. Il Fixed-Term Parliaments Act 2011 aveva il compito di cancellare una radicata e consolidata constitutional convention le cui origini risalivano addirittura al Septennial Act 1715, l’atto con cui il Parlamento aveva sancito, oltre alla propria continuità, anche la durata massima (anziché fissa) di una legislatura: sette anni, appunto; ridotti poi a cinque dal Parliament Act 1911. Questa caratteristica aveva favorito l’emergere del ruolo del Primo ministro come detentore del potere sostanziale di decidere il momento migliore per la fissazione della data delle elezioni. Si trattava di un ganglio vitale della trasformazione in senso democratico della costituzione inglese. Con l’affermarsi della convenzione per cui al Primo ministro spettava proporre l’advice al re circa l’opportunità dello scioglimento senza che quest’ultimo potesse realmente opporsi, le istituzioni della rappresentanza democratica sottraevano per sempre alla Corona e ai Lords la possibilità di incidere concretamente sugli equilibri più importanti della forma di governo. La legge del 2011 si proponeva di interrompere questo percorso durato tre secoli, coltivando l’illusione che bastasse una legge per trasferire alla dialettica parlamentare questa prerogativa del Premier. L’occasione che stiamo commentando si è incaricata di dissolvere, forse definitivamente, questa illusione, mostrando plasticamente il seguente paradosso, l’ennesimo di questa vicenda. La prerogativa governativa circa lo scioglimento del Parlamento non era sancita in nessuna norma scritta ma, almeno a partire dalla prima metà dell’Ottocento, era vissuta da tutti gli attori politici e istituzionali come un caposaldo del sistema. Poi viene sostituita da una norma di diritto positivo, contenuta in uno statute del Parlamento. Ma la norma che ne prende il posto si dimostra molto più fragile ed evanescente di quella consuetudinaria perché risente di un vizio d’origine: essere stata scritta in funzione di un bargaining politico e non della presa d’atto di un mutamento nella coscienza popolare o nelle dinamiche politiche di fondo, come fu, per esempio, per i Parliament Act del 1911 e del 1949. Ecco quindi che alla prima applicazione lo spirito di quella legge viene tranquillamente sconfessato dai calcoli politici contingenti, come dimostra il fatto più paradossale di tutti: il voto favorevole di quei LibDem che allora la vollero fortemente e oggi puntano a intercettare il più possibile l’ampio mercato elettorale pro-Remain, lasciato sguarnito dal Partito laburista e presidiato, ma solo nelle constituency scozzesi, dall’Snp.

Insomma, gli intenti di fondo di una legge frutto di un mercanteggiamento politico vengono superati dai calcoli politici contingenti. Una vendetta sottile per una di quelle storiche consuetudini costituzionali che sembravano destinate a soccombere sotto il peso delle determinazioni parlamentari. È vero che recentemente la Corte Suprema, nella sentenza Miller-Brexit, ha definito le constitutional conventions come non «justiciable by the courts», e tuttavia lo scioglimento del 2017 dovrebbe portare a qualche maggiore riflessione sulla solidità delle norme scritte e di quelle non scritte, in una costituzione così sui generis come quella britannica, di fronte ai volubili mutamenti degli equilibri politici. In tale contesto sono sempre questi ultimi a determinare i canoni applicativi di una norma: se è sentita come cogente, a prescindere dal fatto che sia scritta o meno, ne verrà costantemente rispettato lo spirito. In caso contrario, sarà sempre in balìa dei giudizi contingenti di coloro che sono chiamati ad applicarla.