Ragionando intorno al divieto di voto imperativo. Un appunto
di Mario Patrono
Sembra lentamente affiorare dal fondo del dibattito politico, per poi forse emergere un giorno o l’altro in tutta chiarezza il problema se convenga ancora, a fronte di episodi sempre più frequenti di ‘transfughismo’, e cioè di defezioni di rappresentanti dal partito di provenienza e il loro passaggio ad altro partito e addirittura ad altri partiti che li adottano in successione, mantenere in vita il divieto del voto imperativo. Il problema si pone e sembra doversi porsi in relazione al tema della sovranità popolare, articolo 1 della Costituzione, e in fondo anche in relazione alla stabilità di governo e alla necessaria coesione della maggioranza e della stessa opposizione, nonché – aggiungo – anche con riferimento, se vogliamo, al fatto che la ‘secessione’ di un rappresentante dal partito di provenienza al gruppo misto o ad altro partito lascia senza rappresentanza tutti quegli elettori che lo avevano votato.
Ora io credo però che il problema del divieto del vincolo di mandato, o di un suo futuribile ‘indebolimento’, sia, se non vado errato, un po’ più complesso di così. Mi spiego meglio.
L’ esperienza di 70 anni di vita repubblicana sta a dimostrare un fatto tanto sorprendente, se vogliamo, quanto banalmente vero. Noi abbiamo scritto in Costituzione il divieto di mandato imperativo. L’articolo 67 stabilisce: <<Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato>>. Questo dice la Costituzione. Di fatto però – si badi bene - il mandato imperativo c’è sempre stato. E non solo c’è stato sempre, ma spesso si è anche manifestato pubblicamente ed è stato persino platealmente dichiarato. Voto così o voto colà per disciplina di partito. E anche nei casi di voto segreto vi era presso molti rappresentanti la consuetudine di schierarsi pubblicamente, dichiarando come avrebbero votato (che se poi nel segreto dell’urna si comportassero tutti e sempre in coerenza con tali loro dichiarazioni, è un fatto per noi trascurabile).
Quindi è già in atto su questo argomento – come su tanti altri – una divaricazione tra quella che fu chiamata la Costituzione ‘materiale’ e la Costituzione ‘formale’, cioè scritta. Noi quindi, noi voglio dire nell’esperienza costituzionale del nostro Paese, la regola del divieto del voto imperativo l’abbiamo codificata e al tempo stesso l’abbiamo abbandonata.
La verità, a me sembra, è che lo schema del voto imperativo o lo schema del voto libero da parte del rappresentante è strettamente legato ad un sistema politico per come storicamente funziona o per come si va realizzando.
E allora chiediamoci: che cosa oggi si sta realizzando nell’ esperienza costituzionale del nostro Paese perché si ponga un problema a cui è stata data già una risposta? La risposta è che si vorrebbe applicare una regola, che è quella del vincolo nella decisione da parte del gruppo di rappresentanza, ad un mutamento in atto in senso leaderistico e personale dei partiti politici.
Fino ad oggi, o meglio, fino a ieri o all’altro ieri, c’era una disciplina di partito all’interno di un sistema di partiti i quali avevano una vita democratica interna. Vi era un continuo interscambio sul territorio tra la dirigenza politica e i cittadini, e quindi vi era una legittimazione democratica forte alla domanda di disciplina di partito nel comportamento esterno dei rappresentanti. Oggi invece, non esistendo più nei partiti una vita democratica che possa davvero definirsi tale, ma esaurendosi essa tutta in sporadici momenti che intervengono ogni tot numero di anni,sempre che intervengano, o attraverso forme di partecipazione digitale che prescindono completamente da ogni tipo di dibattito ‘faccia a faccia’, e su cose di cui il più delle volte non si conosce il contesto, si vorrebbe irrobustire o irrigidire la disciplina rispetto agli orientamenti del leader del partito. Questa infatti è una disciplina di partito più debole dell’altra. La ragione è semplice. Quando i partiti erano partiti/ideale o partiti/speranza, la disciplina anche per questo motivo era più facile da imporre ed anzi era una cosa che il più delle volte veniva osservata spontaneamente. Oggi i partiti sono essenzialmente gestori non più di ideali o di speranze, ma di interessi economici. Gli interessi sono volatili. Lealtà e interessi non vanno d’accordo.
Ora il vero problema – un problema estremamente complesso, lo dico fin da subito, è invece il ripristino, è invece il rinnovamento dei partiti e della democrazia interna ai partiti, che sono strutture intermedie essenziali tra cittadini e Stato, nonché ineludibili strumenti di organizzazione del dibattito pubblico. Un tema complesso, dicevo, quello del ripristino della democrazia nei partiti. Un tema che presenta oggi una nuova e aggiuntiva complessità: che è quella di trovarsi oggi la politica frequentemente a diretto contatto con temi coperti da cessioni di sovranità. Non esiste organizzazione sovranazionale che non eserciti pezzi di sovranità nazionale. Si tratta quindi nell’ ordine: a) di creare partiti genuinamente ‘europei’, e b) di impiantare la democrazia dentro questi partiti.
L’impresa, ho detto, non è facile. Ma è indispensabile proporsela ed è urgente realizzarla.
Perché il vero problema è questo? Anche questa risposta è semplice. Il modello personalistico della politica funziona come elemento di necessità, come crisi momentanea; poi, quando si passa dallo straordinario all’ordinario, ritorna in campo il problema dei partiti e della loro organizzazione. In Francia, alle presidenziali, ha vinto Macron, che dietro di sé non ha un partito ma un movimento destrutturato – En Marche - che fa perno su di lui; ma adesso seguiranno le elezioni legislative, e i partiti riprenderanno il loro posto. Lo stesso Macron ha già convertito En Marche in un partito, République en marche. Il fatto è che – e qui vorrei essere chiaro – quando il modello personale di politica diventa un fatto endemico, e il rapporto diretto e senza intermediazioni tra leader e opinione pubblica si consolida e stabilizza nel tempo, allora siamo già fuori dalla democrazia. Diceva Kelsen: o è democrazia o è autocrazia. Tertium non datur.