di Francesca Rosa

All’indomani del referendum del 23 giugno, due cittadini già attivamente impegnati nella campagna per il “remain” si sono rivolti all’autorità giudiziaria per chiarire se il Governo britannico avesse il potere di notificare l’intenzione del Paese di recedere dall’Unione ex art. 50 TUE. La risposta dell’Alta Corte è stata di segno negativo. La prerogativa regia – nella quale abitualmente si radica l’azione del Governo in politica estera, fra cui anche il treaty making and un-making power - non può legittimamente fondare l’avvio del recesso dall’Unione in forza della natura legislativa dei diritti che i cittadini britannici hanno acquisito con l’ingresso in Europa, diritti che non possono essere limitati o revocati in dubbio da un atto del Governo. Questa conclusione poggia su due argomenti: da un lato, il principio unanimemente riconosciuto in base al quale l’esercizio della prerogativa regia non può violare lo statute law, dall’altro la natura costituzionale dello European Communities Act 1972 (ECA). La legge del 1972 ha segnato l’ingresso del Paese nella CEE e ha introdotto un meccanismo di adeguamento del diritto interno a quello europeo (automatico e non), implicitamente limitando alla prerogativa regia la possibilità di “ritrattare” la scelta dell’adesione all’ordinamento europeo e di violare o limitare i diritti individuali che quella scelta reca con sé. Tale interpretazione è corroborata dalla natura consultiva del referendum popolare, al quale non è possibile collegare alcun effetto giuridico sullo stato dei rapporti tra il Regno Unito e l’Unione europea[1].

La pronuncia della High Court ha il grande merito della chiarezza: non solo è leggibile da chiunque non sia uno studioso di diritto costituzionale, ma riesce ad accompagnare il lettore con una linearità esemplare lungo un percorso argomentativo non banale. Al contempo nella lettura emergono molti classici temi del diritto costituzionale britannico: il rapporto tra statute law e common law, quello tra Parlamento e Governo, la natura costituzionale di alcune leggi del Parlamento, la composita natura della costituzione del Paese, la sovranità del Parlamento e il rule of law. D’altro canto, il nitore dell’argomentazione talvolta cela i passaggi più problematici nella ricostruzione e nella motivazione della decisione, finendo per considerare “chiuse” questioni che sono oggetto di dibattito in dottrina. Fra queste meritano di essere richiamate: la revocabilità (o meno) dell’avvio del processo di recesso ex art. 50 TUE, la natura legislativa dei diritti individuali di matrice europea e, infine, a dispetto del rigoroso (e riuscito) tentativo di delimitare il campo giuridico-costituzionale della questione, l’intrinseca politicità del caso.

L’impianto argomentativo della sentenza, chiamata a risolvere una questione di diritto interno, poggia su un presupposto di diritto europeo: l’irrevocabilità della notifica dell’intenzione di recedere ex art. 50 TUE e le conseguenze di quell’atto sui diritti dei cittadini britannici. Questa premessa, che come la Corte nota è condivisa dalle parti in causa, è quanto meno messa in dubbio dalla sintetica disciplina del processo di recesso prevista dal Trattato e dalla sua durata biennale. Solo allo scadere dei due anni, infatti, sia che sia raggiunto sia che non sia raggiunto un accordo che definisce le condizioni di “uscita” (salvo il caso di un unanime consenso per la proroga del termine), il recesso è efficace e incide sulle posizioni giuridiche soggettive individuali che tanta centralità hanno nell’argomentazione della Corte. A fronte dei numerosi interrogativi che l’art. 50 solleva, portando peraltro ad emersione l’annosa questione della natura originaria o derivata dell’ordinamento europeo[2], notiamo la nettezza con la quale l’Alta Corte afferma l’irrevocabilità della notifica, da un lato, e resta silente sul carattere non istantaneo dei suoi effetti, dall’altro. Sono queste le ragioni per cui una parte della dottrina ha sostenuto che la notifica dell’intenzione di recedere costituirebbe solo l’avvio di un processo (almeno) biennale nel quale non solo i diritti di “matrice” europea non verranno immediatamente meno, ma il Parlamento sarà coinvolto necessariamente finanche a poter revocare l’intenzione di recedere[3].

Un passaggio cruciale dell’argomentazione dell’Alta Corte concerne la natura legislativa dei diritti derivanti dall’appartenenza all’Unione, che la notifica dell’intenzione di recedere sarebbe suscettibile di violare. Una parte dei commentatori ha messo in dubbio tale conclusione, affermando che la legge del 1972, lungi dal conferire natura legislativa ai diritti di matrice europea, consente al diritto europeo di produrre effetti nell’ordinamento interno. Sulla base di tale premessa la legge del 1972 non potrebbe costituire un limite per l’azione del Governo sul piano internazionale. Si entra qui nel delicato ambito della ricostruzione dei rapporti tra ordinamento nazionale e ordinamento europeo, con tutte le complicazioni derivanti dalla speciale natura di quello europeo, competente ad adottare norme in grado di produrre effetti diretti sui cittadini degli Stati membri e pertanto accompagnato da meccanismi di “automatico adeguamento”. Non è certo un caso che il ricorso del Governo alla Corte Suprema ruoti intorno a tale problematica ricostruzione[4].

Da ultimo rileviamo che la Corte nel delimitare i confini della questione che è chiamata a risolvere esclude ogni considerazione di merito sulla scelta del recesso: “Nothing we say has any bearing on the question of the merits or demerits of a withdrawal by the United Kingdom from the European Union; nor does it have any bearing on government policy, because government policy is not law. The policy to be applied by the executive government and the merits or demerits of withdrawal are matters of political judgement to be resolved through the political process”. Sottesa a questo elegante periodare, non può mancare la consapevolezza dell’inevitabile impatto politico della pronuncia, che interviene all’indomani di un voto popolare apertamente in dissenso con l’orientamento espresso dalla maggioranza dei deputati e che si inserisce in una relazione tra Parlamento e Governo segnata da un serrato dibattito post-referendario sulla definizione del ruolo del Parlamento nel processo di recesso. A tal proposito possiamo citare sia il rapporto della Camera dei Lords sul ricorso all’art. 50 TUE, sia la mozione approvata al termine dell’opposition day del 12 ottobre, accolta infine anche dall’esecutivo, poiché entrambi ritengono necessario un voto del Parlamento che precede l’attivazione dell’art. 50 TUE. Tra Parlamento e Alta Corte c’è dunque un allineamento. Il Governo, stretto tra i due, ha chiamato in causa la Corte Suprema, ma certo la scelta del Primo Ministro di escludere il voto del Parlamento sembra oggi essere stata poco lungimirante.

[ritorna al forum Brexit strategy]

[1] Rileviamo che il cuore dell’argomentazione accolta dall’Alta Corte era stata prefigurata in dottrina, v. N. Barber, T. Hickman, J. King, Pulling the Article 50 ‘Trigger’: Parliament’s Indispensable Role, U.K. Const. L. Blog, https://ukconstitutionallaw.org/.

[2] M.E. Bartoloni, La disciplina del recesso dall’Unione europea: una tensione mai sopita tra spinte “costituzionaliste” e resistenze “internazionaliste”, in Rivista A.I.C., n. 2 del 2016.

[3] M. Elliot e H.J. Hooper, Critical reflections on the High Court’s judgment in R (Miller) v Secretary of State for Exiting the European Union, https://ukconstitutionallaw.org/ e A. Tomkins, Brexit Democracy and the Rule of Law https://notesfromnorthbritain.wordpress.com/2016/11/05/brexit-democracy-and-the-rule-of-law/.

[4] Supreme Court Printed Case of the Secretary of State for Exiting the European_Union