di Francesco Gallarati

Con la firma dell’Executive Order del 28 marzo, la politica energetica di Donald Trump ha cominciato a prendere forma. Dando seguito alle promesse fatte in campagna elettorale, il Presidente neoeletto ha ridefinito le priorità energetiche nazionali, ponendosi in netta contrapposizione con le politiche portate avanti dall’amministrazione Obama.

Gli obiettivi strategici che Trump intende perseguire in campo energetico sono essenzialmente due: 1) la piena indipendenza energetica degli USA, rispetto in particolare ai paesi dell’OPEC; 2) il rilancio dell’industria energetica, come volano per lo sviluppo economico e per la creazione di nuovi posti di lavoro (v. America First Energy Plan, pubblicato sul sito della Casa Bianca all’indomani dell’insediamento di Donald Trump). Quest’ultimo obiettivo riguarda innanzitutto l’industria del carbone, che negli ultimi anni ha conosciuto una profonda crisi, dalla quale l’amministrazione Trump intende risollevarla, rimettendo i minatori “back to work”. 

Per fare questo, l’Executive Order del 28 marzo contiene alcune misure volte a smantellare, pezzo dopo pezzo, la politica ambientale di Barack Obama. In particolare, il provvedimento si rivolge alle Agenzie federali con competenze in materia energetica, quali in particolare l’Environmental Protection Agency (EPA), cui ordina di rivedere tutta la regolazione esistente, eliminando le restrizioni idonee a ostacolare o impedire l’utilizzo e lo sviluppo delle risorse energetiche nazionali.

Più nel dettaglio, il provvedimento presidenziale ordina all’EPA di eliminare le restrizioni alle emissioni di CO2 contenute nel Clean Power Plan, uno dei capisaldi della politica ambientale dell’amministrazione Obama, che avrebbero probabilmente portato alla chiusura di diverse centrali a carbone. Inoltre, viene rimossa la moratoria sulle licenze minerarie in terreni federali, introdotta da Obama, aprendo così la strada a nuove concessioni di ricerca ed estrazione.

Alla base della politica energetica di Donald Trump c’è l’atteggiamento scettico, per non dire negazionista, della nuova amministrazione rispetto al cambiamento climatico. In campagna elettorale Trump ha definito il cambiamento climatico un imbroglio (hoax) inventato dai cinesi per danneggiare l’industria americana. Una volta eletto, molti commentatori si sono domandati se le politiche del nuovo Presidente sarebbero state coerenti con le esternazioni rese in campagna elettorale. Ad oggi non è possibile dare una risposta definitiva a tale quesito. L’amministrazione Trump, fino a questo momento, non ha negato esplicitamente il cambiamento climatico, così come non ha dichiarato di voler rinnegare gli impegni assunti da Obama alla Conferenza di Parigi.

L’esitazione è probabilmente dovuta al fatto che Trump deve tenere conto da un lato dell’opinione pubblica americana, in larga parte sensibile alle questioni ambientali, e dall’altro delle reazioni che i partners internazionali, quali in particolare la Cina, potrebbero avere di fronte ad un passo indietro degli Stati Uniti (sulle reazioni internazionali alle misure di Trump, v. J. Worland, How the World is responding to President Trump’s climate policies, in Time, 30-3-2017, disponibile sul sito Time.com).

Al di là però del riconoscimento formale della necessità di ridurre le emissioni in atmosfera del secondo Paese al mondo per emissioni di CO2 (dopo la Cina), sta di fatto che il primo provvedimento importante dell’era Trump in materia energetica va nella direzione opposta rispetto agli impegni assunti da Obama.

Resta da chiedersi, a questo punto, se le misure adottate da Donald Trump siano capaci di rilanciare effettivamente l’industria del carbone e di arrestare la transizione verso l’energia pulita. Dalle colonne del New York Times, nei giorni seguenti la firma dell’Executive Order, diversi commentatori hanno sostenuto (e auspicato) il contrario (v., tra gli altri, C. Krauss, D. Cardwell, Policy’s Promise for Coal Power Has Its Limits, in The New York Times, 29-3-2017, A1).

La politica energetica del Presidente Trump, in effetti, potrebbe essere frenata da diversi fattori.

Innanzitutto, l’Executive Order non produce effetti immediati, ma si limita ad ordinare alle Agenzie federali di mettere mano ai regolamenti adottati in materia ambientale. Questo processo potrebbe durare molto tempo, anche diversi anni, e presumibilmente sarà rallentato da battaglie legali, oltreché politiche, condotte dagli oppositori dell’attuale presidenza. Il ritardo potrebbe essere tale da impedire a Trump di realizzare il proprio programma prima della fine del mandato, con la possibilità che non venga riconfermato dagli elettori americani nel 2020.

In secondo luogo, il programma presidenziale si scontra con la volontà di diversi Stati progressisti, quali in particolare California e New York, che hanno dichiarato di voler continuare ad attuare, nell’ambito delle proprie competenze, politiche fortemente ambientaliste.

Inoltre, secondo un giudizio pressoché unanime dei commentatori, le misure adottate e promesse da Donald Trump non saranno in grado di rilanciare l’industria del carbone, né di restituire i posti di lavoro ai minatori. La crisi del carbone, infatti, più che alla regolamentazione restrittiva adottata nell’era Obama, è dovuta alla shale revolution, che ha ridotto drasticamente i prezzi del gas naturale, mettendo fuori mercato il ben più costoso e inquinante carbone. La cancellazione delle restrizioni alle emissioni potrebbe consentire agli impianti in attività di continuare a bruciare carbone per qualche anno, ma difficilmente potrà rilanciare gli investimenti in questo settore, che non è più considerato redditizio (v. G. Dyer, Trump non può fermare la lotta contro il riscaldamento globale, in Internazionale, 31-03-2017, disponibile sul sito internnazionale.it).

Infine, occorre considerare che molte imprese americane produttrici di energia hanno avviato in questi anni investimenti molto importati nel gas naturale e nelle energie rinnovabili. Difficilmente queste politiche aziendali muteranno per effetto delle misure adottate dal Governo federale. Le politiche aziendali, infatti, rispondono prima di tutto al mercato, che in questo momento a livello globale è molto attento alle questioni ambientali. Inoltre, i piani di investimenti vengono adottati assumendo una prospettiva a medio-lungo termine, e pertanto difficilmente si faranno condizionare dalle scelte contingenti di un’amministrazione che si pone in controtendenza rispetto alla transizione globale verso le energie pulite, e che rischiano di essere nuovamente rinnegate dalla stessa presidenza USA tra quattro anni.   

In definitiva, secondo alcuni commentatori, la politica energetica di Donald Trump potrà frenare, ma non invertire la tendenza verso una maggiore sostenibilità delle fonti energetiche.

Se questo è vero, tuttavia non bisogna sottovalutare l’impatto che la politica energetica di Donald Trump potrà avere a livello globale (v. Editorial Board, President Trump Risks the Planet, in The New York Times, 29-3-2017, A26). È noto infatti che alcuni dei paesi firmatari dell’accordo di Parigi avrebbero volentieri fatto a meno di assumersi impegni vincolanti in termini di riduzione delle emissioni, ma vi erano stati “costretti” dal consenso raggiunto tra le due principali potenze economiche mondiali, Cina e USA.

Ora, il disimpegno – formale o sostanziale – degli Stati Uniti rispetto agli accordi sottoscritti a Parigi consentirebbe a questi paesi di non tenere fede, a loro volta, agli impegni presi, determinando il fallimento della COP 21. La politica energetica di Donald Trump, quindi, rischia di pregiudicare in maniera forse irreversibile la lotta contro i cambiamenti climatici, più che per le sue conseguenze nazionali, per le sue possibili ripercussioni globali.